"Più che un semplice film è una vera sfida a Hollywood. Un gesto estremo per dare un esempio ai giovani e dimostrare agli adulti che non si deve mai smettere di combattere". E' un Sylvester Stallone abbronzatissimo e in gran forma, quello che incontra i giornalisti italiani per la presentazione di Rocky Balboa, in uscita il prossimo 12 gennaio: 25 minuti appena, in cui l'attore incanta la platea con la sua filosofia di strada e dimostra di aver messo a frutto i 30 anni ormai trascorsi dal primo episodio, 3 volte Oscar nel 1976: "Insieme a quello - dice -, considero questo il film più personale e biografico dell'intera saga. Come allora, il combattimento finale è un'emblematica rappresentazione di quanto lontano possa condurre la passione". Malinconia, tanti ricordi e anche una buona dose di autoironia: a indurre lo Stallone italiano a questo canto del cigno è soprattuto il bisogno di chiudere in bellezza il ciclo che lo ha reso celebre. "L'accoglienza a Rocky V mi aveva profondamente amareggiato. Volevo mettere la parola fine nel migliore dei modi, affrontando discorsi anche più profondi e di maggiore spessore. Come lui stesso sottolinea, la boxe è infatti poco più di un pretesto: "E' piuttosto una storia sulle difficoltà della vita e il bisogno di trovare sempre nuove motivazioni per andare avanti. Si parla di problemi esistenziali e l'incontro, alla fine, occupa appena 10 minuti del film".
Al centro della vicenda è infatti il bilancio che il vecchio Balboa è costretto a tracciare trent'anni dopo i primi successi. La moglie Adriana gli è stata portata via da un cancro. Di lei resta un ricordo bruciante, una galleria di immagini e luoghi da cui Rocky non riesce a separarsi. Di allora restano però soltanto macerie: addirittura il fedelissimo Paulie, l'unico insieme all'ex allenatore di tanti suoi incontri a non aver mancato un episodio, è ridotto a uno straccio dalla morte della sorella. I tempi sono cambiati per tutti. Niente più ring, riflettori, emozioni forti. L'esistenza si trascina fra piccoli gesti quotidiani: un ristorante in cui ha offerto rifugio e lavoro agli amici di allora e poco più. "Quando la vita ti costringe a simili perdite - spiega Stallone -, devi assolutamente dar loro sfogo, altrimenti finisci per esplodere. C'è chi lo fa dipingendo, chi in altro modo. Rocky attraverso la boxe. Il combattimento finale altro non è che la tappa conclusiva di questo percorso, che si trova ad affrontare per andare avanti". Segno dei tempi è il pretesto che riporta il pugile sessantenne sul ring: una simulazione al computer, che mette a confronto campioni del presente e del passato, in virtuali sfide all'ultimo sangue. Da qui lo spunto che riaccende la speranza di Rocky, inducendolo all'ultimo confronto impossibile della sua carriera. La retorica è quella di sempre: da una parte lui, il due volte incoronato re dei massimi, incarnazione di passione e voglia di superarsi; dall'altra il giovanissimo e imbattuto campione in carica, emblema di tecnica e lucida preparazione: "Mi piacerebbe che si pensasse a me come un moderno John Wayne: i tempi sono cambiati, ma il mondo continua ad avere bisogno di nuovi eroi. E volevo che il mio Rocky fosse appunto un eroe semplice, come tanti di quelli di oggi. Una persona normale, che non vola, non compie miracoli, ma nel suo piccolo riesce in imprese straordinarie". A parlare è uno Stallone soddisfatto del suo bilancio, che vuole chiudere un ciclo, ma sente ancora di avere tanto da dare: "Sono stato molto fortunato nella mia carriera. Finora mi sembra di aver vissuto non una ma dieci vite. Quello che voglio fare adesso è soltanto scrivere, recitare e dirigere nuovi attori, aiutandoli ad evitare gli errori che io stesso ho commesso. Allo stesso tempo voglio però mandare un segnale anche ai miei coetanei. Spronarli a fare, a rinnovarsi, a cambiare, e soprattutto a capire che c'è ancora spazio anche per loro".
Il prezzo che Stallone per questo ha dovuto pagare è stato un allenamento durissimo: "Ho sentito molto l'età - racconta - e rischiato spesso di infortunarmi. Come nel film, anche nella mia preparazione è cambiata la filosofia. Non mi sono più allenato da bodybuilder, ma da sollevatore di pesi e alla fine ho raggiunto il mio risultato. Volevo che Rocky apparisse come un vecchio toro, appesantito ma potentissimo, e ce l'ho fatta: non ero mai stato così grosso dai tempi di Rocky III". Determinanti, per la carriera dello Stallone rinato, saranno i prossimi due anni. "Prima - annuncia - il Rambo IV, che sarà però congelato per un annetto, poi un piccolo film dulla morte di due rapper. L'idea risale a un anno e mezzo prima di Rocky Balboa e non avrei voluto farlo subito dopo, ma ormai ci sono dei vincoli legali che mi impongono quest'ordine". Anche in questo caso si tratterà dell'episodio che concluderà la saga e anche in questo caso servirà a Stallone per tirare le somme: "Rispetto a Rocky è un personaggio più cupo e tormentato. Il copione sarà difficilissimo, perché si tratta per di più di un eroe introverso, che non parla ed esprime tutto con la fisicità. Nella storia si ritroverà da solo nella giungla dell'est asiatico e vorrei che apparisse come un animale abbrutito. Una specie di bestia, abbandonata a se stessa, che deve riabituarsi all'umanità. Cambierò moltissimo per il ruolo e per questo farò un allenamento specifico, con pesi enormi, che mi faccia ingrossare il più possibile, piuttosto che scolpire il mio fisico".