A vent'anni dalla scomparsa di Robert Bresson (che ci ha lasciato il 18 dicembre 1999), Mylène Bresson, moglie del regista, ha incontrato il pubblico di Tertio Millennio Film Fest.

Gianni Amelio, vincitore del Premio Bresson 2017, ha dialogato con lei. Al termine, è stata proiettata la versione restaurata di Au hasard Balthazar.

Ha aperto l'incontro, Mons. Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo: “per diventare preti a Milano”, racconta, “è obbligatorio vedere tutta l'opera di Bresson, indispensabile per il percorso di crescita spirituale”.

“Il Premio Bresson è l'unico premio che la Chiesa assegna a un regista. Anche la nostra rivista, la Rivista del Cinematografo, la più antica in Italia, ha un nome bressoniano: ci piace riconoscersi nel suo magistero”. Don Milani allude alla nota differenza teorizzata dal regista: Bresson, infatti, sosteneva che se il cinema nasce dalla “mescolanza di vero e di falso che produce il falso”, il cinematografo è “una scrittura con immagini in movimento e suoni” ascrivibile a un solo responsabile.

La signora Bresson ha ricordato così la vita accanto al regista: “si sa che tutti gli artisti sono soli. Vederlo lavorare da solo è stato un grandissimo onore. La sua solitudine era qualcosa di singolare”.

“Essendo allo stesso tempo sceneggiatore, adattatore, dialoghista e regista”, continua, “era libero in tutte le fasi della composizione e questo ha dato unità e coerenza ai suoi film”.

Mylène Bresson (Foto di Karen Di Paola)

Per Amelio, “bisogna mettere in chiaro che il cinema di Bresson non si può imitare. Si può imparare e andare sulla propria strada. Troppi si sono illusi di battere una strada che in realtà non avevano colto cosa Bresson volesse dire, facendo solo grottesche parodie”.

“Io amo Bresson”, prosegue, “ma non sarei capace di fare un film come lui, con lo sforzo ostinato e coerente di farlo da solo. Bruciare ogni volta una tappa raggiunta per costruire dalla cenere qualcosa di nuovo, che avevi in mente prima ancora di scrivere una parola. Il cinema si scrive solo con la macchina da presa”.

Bresson diceva che “la macchina da presa non è una scopa”. Secondo Amelio, “è una delle frasi più intelligenti dette sul cinema. Non basta ramazzare. Il metodo Bresson rinnega la superficialità e va nel profondo. Non è limitativo fermarsi sul viso di una persona. Oggi si rincorrono le nuche degli attori e si confonde il primo piano con il dettaglio”.

Emozionante il ricordo da spettatore: “ho visto Un condannato a morte è fuggito a 16 anni e ho imparato che non esiste un cinema di dettagli ma di primi piani. L'umanesimo non si rivolge al racconto ma al modo di raccontare. L'ultima battuta di quel film, dopo minuti e minuti di silenzio, è per me la più bella della storia del cinema: ‘se mi vedesse mia madre’, dice il protagonista. Rimasi fermo sulla poltrona del cinema: ha afferrato il senso della nostra esistenza”.

“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio: il cinema di Bresson parla di silenzi che sono forza di suoni. Un cinema che si autoesprimeva”, continua a riflettere parlando anche dell'oggi. “La quasi totalità dei film che vediamo – diceva Bresson – è teatro filmato: ha ancora ragione. Troppi registi non creano nel momento in cui agiscono ma mettono in scena ciò che già esiste”, riflette il regista di Il ladro di bambini. “Lui di Anna Magnani non avrebbe saputo cosa farsene: questa potrebbe essere la sua concezione di cinema”.

Ragionando sull'eredità artistica del marito, Mylène Bresson ha ricordato una retrospettiva dedicata a Bresson a Londra: “l’hanno intitolata L'influenza di Bresson, probabilmente. Sono d'accordo, perché è un'eredità che tocca molti senza essere definita e definibile”.

“Ci sono voluti quindici anni per produrre Au hasard Balthazar. Appena vedevano che il protagonista era un asino, i produttori davano del pazzo a Robert. Lo era? Forse”, sorride.

Gianluca Arnone, Mons. Davide Milani, Gianni Amelio, Mylène Bresson (Foto di Karen Di Paola)

“Molti critici hanno scritto che Au hasard Balthazar rappresentava la vita di Gesù. In realtà, per Bresson, nessun essere umano poteva incarnare Gesù. Ma ci voleva un'audacia folle o una grande umiltà per immaginare che un asino sarebbe stato in grado di rappresentare Cristo”.

“È difficile filmare lo sguardo di un asino e registrarne la voce”, ricorda, “infatti, fu usata quella di un altro asinello. La scena del circo è stata ripresa tre mesi dopo il film perché non fu semplice impartire le istruzioni all'asino”.

“La grandezza di Bresson”, continua Amelio, “è in quello che nasconde. Il mistero di ogni sua opera non si può limitare a un giudizio”.

“Bresson non era né un teologo né un filosofo”, conclude la Bresson. “È un poeta, vale a dire qualcuno che suggerisce. La sua spiritualità è incarnata, il suo cinema collega il visibile e l'invisibile. Lo spettatore non dovrebbe guardare un film come una mucca guarda passare un treno ma spalancare occhi e orecchie”.