"Quando racconti una donna del mondo musulmano stai raccontando tutto quello che sta accadendo nella società". Così Fariborz Kamkari sintetizza il senso de I fiori di Kirkuk, allucinante documento dell'Iraq di Saddam e del genocidio del popolo curdo filtrati dal punto di vista di un'eroina indomita che tanto ricorda la Miral di Schnabel. Il film, presentato in concorso e distribuito da Medusa in Italia (uscirà il 19 novembre) è una coproduzione tra Italia, Svizzera e Iraq ed è la prima opera di finzione girata nell'Iraq democratico di oggi (in massima sicurezza e con la più totale collaborazione delle autorità, come conferma la produzione): "Un paese nettamente più libero di ieri - commenta Kamkari - ma che ha ancora tanti problemi da risolvere". E tra i primati de I fiori di Kirkuk c'è anche quello legata alla persecuzione dei curdi iracheni, una cosa che il cinema non aveva mai raccontato perché "in medioriente vige ancora un'apartheid culturale sulla loro storia. Ci sono paese in cui il popolo curdo è ancora perseguitato". Protagonista della vicenda una ragazza fresca di laurea in medicina, Najla (Morjiana Alaoui), che torna a Kirkuk alla ricerca del fidanzato Sherko (Ertem Eser), un giovane idealista curdo che, di fronte alle sofferenze del suo popolo, si è dato alla macchia entrando tra le file della resistenza anti-Saddam. Nonostante sia sunnita, Najla farà di tutto per aiutare il ragazzo, mettendosi contro la famiglia di origine, il figlio di un generale che vorrebbe sposarla, e i servizi segreti iracheni. Ma il suo coraggio non basterà a salvarla. "Una donna - dice il regista in perfetto italiano (è qui che ha vissuto parte della sua vita) che ha il coraggio di lottare contro un sistema di oppressione: ce ne sono tante in Medioriente. In fondo la stessa Sakineh, che domani il regima iraniano vorrebbe giustiziare, è del tutto simile a lei: ambedue combattono per cambiare le cose, sacrificandosi per amore". La storia de I fiori di Kirkuk nasce, sottolinea Kamkari, "da una vicenda personale ma raccontata come fosse un dramma: una tradizione che non esiste nei nostri paesi, dove perlopiù si producono documentari. Ma volevamo raggiungere il pubblico più ampio possibile, trasformando un ricordo personale in memoria collettiva: è questo il contributo che il cinema può dare affinché cambino le cose in Medioriente". La scelta di girare un dramma ha richiesto professionalità diverse da quelle di cui si avvale di solito il cinema iracheno, perciò gran parte della troupe e del cast proviene dall'Europa e anche "l'approccio - confessa il regista - deve molto al cinema italiano, di cui sono un garnde appassionato. Penso alla lezione di Rossellini, a come lui riusciva a raccontare la guerra partendo dalle piccole storie dei suoi personaggi". E oltre alla produzione, il cast e i riferimenti cinematografici, un altro elemento di dialogo tra occidente e oriente del film sono le musiche, dell'Orchestra di Piazza Vittorio: "Con loro una collaborazione ovvia: loro esprimo coi suoni quello che io ho cercato di raccontare per immagini: l'interculturalità".