Ricordare la rabbia, quella dell'Inghilterra di ieri, dal free cinema all'era thatcheriana ma, anche, raccontare la rabbia di oggi, quella di terre poco più a nord o a est dell'Italia, dalla Germania alla Serbia alla Repubblica Ceca alla Polonia. La 25esima edizione del Bergamo Film Meeting, che ha preso il via sabato 10 e si concluderà domenica 18, intreccia quest'anno due sguardi sul cinema europeo, alternando alla bella retrospettiva curata da Emanuela Martini sul cinema "arrabbiato" della Gran Bretagna la selezione del concorso, come ogni anno sintonizzata sulla produzione dei Paesi balcanici e dell'Europa del Nord. In mezzo, qualche ripescaggio dal cinema classicissimo di Billy Wilder (La fiamma del peccato, Arianna, Baciami, stupido) e la personale del cecoslovacco Jan Sverák, vincitore nel 1996 del premio Oscar per il miglior film straniero con Kolja. Già alla metà del concorso – col vincitore democraticamente eletto dal pubblico, niente giurie "tecniche" - il giudizio tirava verso la "carineria", anche quando i temi sono drammatici e attuali, o il dolore intimo e indicibile, come in I said so little di Lydzia Englert (una delle tante opere prime in gara), il più insopportabile di tutti, camera fissa, pochissime parole, disperazione teatrale. Germi di cinema d'autore rimasticati male, che fortunatamente non infettano le prime due pellicole del concorso, Vuoti a perdere del belga Geoffrey Enthoven, commediola finita in fretta e male, ma per il resto tenuta bene, sulla terza età, e Tresette dei croati Dražen Žarkovic e Pavo Marinkovic, tutto in superficie, debolmente surreale, simpatico a metà. Due film a loro modo "classici", per come intendono il rapporto con lo spettatore. E gli spettatori - che quest'anno sono davvero tanti, e affollano fino all'ultima poltrona quasi tutte le proiezioni - sembrano apprezzare. Anche il semi-documentaristico (in digitale) Vedi di guadagnare terreno della tedesca Kerstin Ahlrichs, che imbastisce una storia piccola ma non banale sulle disgrazie dei nuovi immigrati in cerca di lavoro e sui tedeschi (nuovi e vecchi) che cercano di sopravvivere sfruttandoli, anche se in buona fede; dolciastro, anche se a tratti sofferto, come invece è tutto o quasi Vergogna del polacco Piotr Matwiejczyk, esistenzialista e a più voci. Tutti film ben fatti, a volte anche ben scritti, quasi sempre ben recitati. Senza un guizzo, una provocazione, un'idea, neppure lontana, di "cinema".
Gli autori, e il cinema, vanno cercati quest'anno nei titoli della retrospettiva "Ricorda la rabbia", e se ne trovano a decine. Da Karel Reisz, di cui si è (ri)visto il miracoloso Morgan, matto da legare del '66, al Ken Loach degli inizi, di Cathy Come Home, dello stesso anno, bellissima docu-fiction (si direbbe oggi) sulla crisi degli alloggi, e della vita, passando per il Furie di The Leather Boys (1963), messo in scena come un film hollywoodiano ma percorso dalla temperie della modernità. Ad anni più recenti, ma a una rabbia non dissimile (sociale, politica, sessuale), si riferiscono Niente per bocca di Oldman, a tratti sadico e a tratti sublime, The Last of England di Jarman, apocalittico e perverso, La moglie del soldato di Jordan, onirico e tenebroso. O, ancora, lo splendido Tom Jones accanto a Ventiquattro sette di Shane Meadows, Belle speranze di Leigh, Trainspotting di Danny Boyle che, giustamente, ha chiuso il Festival.