Il culto della bambina prodigio – la “child star” che arriva prestissimo sullo schermo per restarci fino a che l'alibi dell'età glielo consente – è uno degli aspetti più inquietanti del divismo in grado di svelare come pochi altri l'ambiguo intreccio di sogno e realtà, glamour e puericultura, mito e merce che è al fondo del fenomeno.
Non è certo il caso di lasciarsi andare al facile moralismo, forse l'importante è cercare di capire. Anche perché le pose buffe ma sapienti delle bimbette di pochi anni che si atteggiano a vamp e le grazie acerbe delle adolescenti in dieta richiamano l'attenzione sulla prodigiosa fotogenia di alcuni soggetti piuttosto di altri, sull'imprinting fotografico della macchina da presa, sul meccanismo stesso della riproduzione tecnica dell'immagine infantile alla base della redditizia liturgia stellare che accompagna non poche figure di attori e attrici in erba. La soglia precoce o precocissima dell'età sembra chiamata a sdoganare gesti e atteggiamenti che altrimenti sarebbero rimossi come leziosi e bamboleggianti, ma è anche vero che il successo della bambina prodigio si muove sul filo di rasoio dell'innaturale sospensione del tempo, sull'azzeramento impossibile della crescita al di fuori della storia e della biologia. Fino a quando?
Nel panorama del cinema americano, che è da sempre il terreno di cultura del fenomeno, o almeno quello di maggiore risonanza, si moltiplicano gli esempi attraverso i quali ci si può affacciare sul particolarissimo stardom dei piccoli interpreti. Nessun'altra può vantare la popolarità di Shirley Temple che nella seconda metà degli anni trenta, dai sei ai dieci anni, è in testa alla classifica degli incassi, stracciando Greta Garbo e Clark Gable, senza contare i trecentomila dollari all'anno che guadagna. Classe 1928, qualche anno prima aveva debuttato come “bathing beauty” – come dimenticare le bellezze balneari adulte delle comiche di Mack Sennett? – in un piccolo costume da bagno tenendo in mano una coppa più grande di lei senza smettere di alzare il dito in modo accattivante e disinvolto. Soprannominata Riccioli d'Oro, aveva un suo repertorio di vezzi e gesti, di canzoncine, di esibizioni di tip-tap che sfodera in una ventina di film prima che il pubblico cominci a accorgersi che la sua beniamina sta crescendo, mentre va bruscamente in frantumi il mito dell'infanzia eterna.
Se verrebbe da pensare all'insopportabile trionfo del lezioso tra moine svenevoli e micidiali scivoloni nella melassa, la realtà è diversa. Nonostante gli evidenti limiti di molti titoli della sua breve avventura cinematografica, la ragazzina è una vera attrice. Il suo talento è fuori discussione, come la sua attitudine per la commedia. Basta vederla all'opera in L'idolo di Broadway (1938), il musical di Irving Cummings in cui è accanto al giovanissimo Jimmy Durante, per restare incantati dalla singolare bravura e dalla insospettabile autorità con cui dirige il traffico nella divertente sequenza del tribunale che grazie a lei diventa l'anteprima dello spettacolo dove si esibiscono tutti gli attori, i ballerini e i cantanti a rischio di sfratto.