"La nozione 'essere sani' è necessario definirla per noi che condividiamo il mondo, ma non si può stabilire con certezza il 'modo giusto di essere': per questo amo interpretare ed esplorare personaggi al di fuori della normalità, che tutto sommato ritengo una prigione. Proprio ieri sera, a cena, parlavo di questo argomento... Poi mi sono accorto che stavo parlando da solo...". Così Michael Shannon spiega perché, dopo la nomination all'Oscar per Revolutionary Road, lo troviamo nuovamente sullo schermo nei panni di un disturbato mentale, Brad McCullum, protagonista di My Son, My Son, What Have Ye Done, secondo film in Concorso (a sorpresa, dopo Bad Lieutenant) di Werner Herzog, prodotto da David Lynch e interpretato anche da Chloë Sevigny, Willem Dafoe, Udo Kier e Michael Pena.
"La storia del film - racconta il regista bavarese - nasce da un reale fatto di cronaca avvenuto a San Diego: un attore di talento, impegnato nell'Orestea di Sofocle, ha ucciso la madre. Dichiarato incapace di intendere e di volere, è stato rinchiuso per otto anni in un istituto psichiatrico criminale, poi è uscito. L'ho incontrato che viveva in un camper parcheggiato al sud della California, era ancora pazzo: ricordo che sulla parete aveva un crocifisso con una candela accesa sotto, mi spaventò molto...".
La sceneggiatura (di Herbert Golder) era pronta da qualche anno, ma i consueti ostacoli economici avevano impedito la realizzazione, fino all'interessamento di David Lynch: "Con David ci stimiamo molto - dice ancora Herzog - ed una sera parlavamo del fatto che ormai i costi di produzione e di distribuzione nel cinema stavano aumentando sempre di più. 'Bisognerebbe riuscire a fare film con massimo 2 milioni di euro, gli dissi, e al tempo stesso riuscire a coinvolgere gli attori più bravi'. 'Perché non lo facciamo? Hai già qualche progetto?', mi ha risposto. Ed io: 'Sì, certo, possiamo partire anche domani...', e dopo qualche tempo siamo riusciti a dare il via alla produzione". Che, tra le altre cose, ha riportato il regista in Perù, sui luoghi amati e mai dimenticati dai tempi di Fitzcarraldo: "Tornare lì è stato come ritrovare un luogo dell'anima, è come se la giungla - da allora - mi abbia adottato definitivamente". "Più del film in sé, la vera esperienza è stata quella di viaggiare insieme a Herzog in quei posti meravigliosi, teatro dei suoi più grandi film", gli fa eco Shannon, che tornando a parlare di pazzia, assicura: "Non è che me ne sto a casa con pile di sceneggiature da scegliere, le persone mi cercano per quello che ho fatto in altre occasioni. Nel caso del film in questione, comunque, la cosa che mi ha convinto maggiormente è stato il modo in cui il regista ha affrontato la storia: da una prospettiva misteriosa e complessa, suggerendo in ogni momento allo spettatore le domande 'Perché esiste la possibilità che un uomo possa scegliere di compiere un'azione simile? Che cosa ci trascina del nostro subconscio?'. Io sono stato semplicemente l'intermediario tra l'uomo in questione e l'espressione di Werner, della sua visione del mondo: una piccola parte di un tutto".