Bianchi che uccidono per semplice paura. Neri spinti alla violenza da piccoli gesti di discriminazione quotidiana. Immigrati di ogni razza armati e carichi di livore. E' l'America dell'intolleranza strisciante e diffusa, quella prigioniera del terrore e dell'isolamento, ritratta dal coraggioso Crash dell'esordiente Paul Haggis, in uscita l'11 novembre. "Troppo facile puntare il dito contro i cattivi e i razzisti - dice il neoregista, già sceneggiatore candidato all'Oscar per Million Dollar Baby -. Ho voluto fare un film scomodo, che partisse dalle mie stesse paure, per riflettere su quelle dell'intera nazione e costringere il Paese ad ammettere la sua intolleranza". Realizzato con appena 6 milioni di dollari, risparmiando su pellicola e location per pagare le comparse, il film è stato incoronato dal box office Usa con un incasso dieci volte superiore. "E' la testimonianza che il pubblico non vuole soltanto intrattenimento - commenta Haggis -, ma ama essere sfidato, spiazzato, messo alla prova". Nel cast corale, accanto a al coproduttore Don Cheadle, compaiono anche i nomi di Sandra Bullock, Matt Dillon, Brendan Fraser e Thandie Newton. 
Alla base della storia, un episodio realmente accaduto allo stesso Haggis: "Tutto è iniziato quando sono stato derubato della mia auto da due uomini armati - racconta -. Da allora ho cominciato a interrogarmi su chi fossero i rapinatori, come trascorressero il loro tempo e perché avessero compiuto un simile gesto. Da qui ho deciso di immedesimarmi in loro e di seguirne il privato, per comprenderne le ragioni". L'idea prende corpo nel 2001 ma da allora inizia la difficile ricerca dei finanziatori: "Negli Stati Uniti oggi è difficilissimo produrre un film che parli di razzismo e di intolleranza. Le major peccano di pigrizia e la sperimentazione è possibile soltanto grazie alla fiducia del mercato europeo". La conferma arriva da Aurelio De Laurentiis, che distribuisce la pellicola con la sua Filmauro: "Fin dall'inizio siamo rimasti sorpresi da spessore e potenzialità della sceneggiatura - spiega -. Un soggetto tanto solido, da poter quasi prescindere dalla qualità degli attori". "E poi Haggis è un uomo-cinema a 360° - si complimenta ancora De Laurentiis -. Un genio versatile e poliedrico, a cui la gavetta televisiva ha regalato la possibilità di dirigere, sceneggiare e produrre con la stessa sicurezza e versatilità".
Impossibile individuare un unico protagonista del film. Ricorrendo a una struttura episodica, Crash intreccia le vicende di un procuratore bianco, un negoziante iraniano, un detective e un regista televisivo di colore, insieme a quelle di un manovale ispanico, una coppia coreana e tanti altri personaggi. Minimo comun denominatore è una nuova forma di razzismo, di cui tutti sembrano al contempo vittime e protagonisti: "Il cinema si è sempre avvalso della dicotomia tra buoni e cattivi - dice Haggis -. Una prospettiva di certo rassicurante, ma ben lontana dalla realtà. L'ambiguità di ogni personaggio è la stessa che contraddistingue ciascuno di noi". L'America è cambiata, prosegue il regista, e con il paese anche le forme del razzismo e della discriminazione: "Rispetto a 50 anni fa, quelle di oggi sono meno plateali. Il vero problema degli Stati Uniti è oggi una discriminazione strisciante, sommersa, ma per questo non meno dannosa. L'interrogativo da cui sono partito è il prezzo in termini di dignità, che i neri e le minoranze sono costrette a pagare per una convivenza pacifica". 
Elemento determinante, nella genesi del film, è l'incertezza globale scatenata dall'11 settembre. "Una tragedia che ha avuto un impatto devastante sugli Stati Uniti e sul mondo intero - commenta Higgis -, ma che non deve oscurare tante altre tragedie, che sono all'ordine del giorno in ogni altro angolo del pianeta". "Talvolta provo imbarazzo ad essere americano - prosegue polemico il regista di origine canadese -, perché la centralità politica degli Usa ci induce ad archiviare troppo facilmente drammi di altrettanta gravità, come quello che oggi stiamo vivendo in Iraq". Più che un film sul razzismo, Haggis dice però di aver voluto puntare il dito sulla discriminazione e sulla paura contemporanea: "L'ambientazione a Los Angeles è casuale. Il ritratto che ho voluto fornire è quello di una scena globale sempre più dominata dall'isolamento e dal sospetto. Una tendenza a barricarsi nel proprio recinto e rifiutare chiunque ne sia fuori, che ormai contagia gran parte del mondo occidentale".