Il giorno dopo tutto è giubilo, analisi, errore. Hollywood e propaggini dell’ex impero salutano “uno dei migliori Best Picture di sempre”, il parallelo Corona virus e Parasite è variamente declinato, insomma, si guarda a Est, e più non dimandare. No, c’è ancora molto da dire, e anche da rettificare.

Innanzitutto, il cinquantenne sudcoreano Bong NON è “il primo regista ‘straniero’ a ricevere quella al miglior film” di statuetta, a meno di non spostare i natali del nostro Bernardo Bertolucci, per dirne uno, da Parma a New Orleans: vi ricordate, appunto, i nove Oscar de L’ultimo imperatore, tra cui film e regia, nel 1988?

Molto ci sarebbe da dire, poi, della strategia dispendiosa e vana di Netflix per accaparrarsi la statuetta più ambita: ancora non gli è riuscito, ma l’anno scorso almeno Roma c’era andato vicino, stavolta il cavallo di battaglia The Irishman di Martin Scorsese non ha trasformato alcuna delle dieci nomination – e la piattaforma streaming di Los Gatos solo due delle 24 nomination record.

Interessante, assai, anche la divaricazione festivaliera tra Venezia e Cannes, con due alfieri che più diversi non si potrebbe: il Leone d’Oro Joker, premiato con Joaquin Phoenix protagonista – a proposito, lo preferivamo “assente presente” da Letterman che non paladino degli animali e fustigatore del ‘razzismo sistemico’ di Hollywood: cara Rooney, che gli hai messo in testa? – e pure la compositrice Hildur Guðnadóttir, che è un eterodosso, fumettistico blockbuster da oltre un miliardo di dollari al botteghino globale, e la Palma d’Oro Parasite, che è un thriller formato famiglia e anticapitalista scritto e diretto da un regista coreano.

Agli antipodi, e trionfando il secondo stravince anche Cannes, che dopo l’ostracismo streaming, dopo le costrizioni sul red carpet e gli incongrui embarghi per la stampa, dopo sopra tutto aver perso terreno proprio nei confronti delle Mostra e di Hollywood – vi ricordate il mancato lancio del GGG di Spielberg, che innescò la disaffezione degli Studios? – rialza la cresta gallica, portando in vetta non un americano o un messicano della premiata ditta Three Amigos bensì un coreano. Che colpo.

Molto, ancora, si potrebbe dire della caduta o, siamo buoni, della seduta dei giganti, giacché Bong ha scippato Sam Mendes (1917) per la regia e Quentin Tarantino (C’era una volta a… Hollywood) per la sceneggiatura originale – per tacere dello scontro acerrimo e fratricida tra il netflixiano Scorsese e l’anti-streaming Spielberg, che il coreano ha risolto a proprio favore… - ma the day after una cosa su tutte deve essere portata alla nostra attenzione: val bene l’Estremo Oriente sugli scudi, la recrudescenza della lotta di classe, i record infranti in seno alla storia dell’Academy, ma Parasite ci riconduce in primis alle nostre possibilità e responsabilità, quelle del cinema italiano.

Il coreano con cui è parlato fa cadere, e rumorosamente, gli alibi del comparto, alla voce: “Vabbè, non parliamo inglese, che vuoi farci?”, ovvero a che vuoi ambire, agli Oscar, siamo seri. Invece no, il parassita coreano che si pappa l’intera Hollywood indica che un altro mondo è possibile e premiabile, che non si vince, e tutto, solo in inglese: se un coreano sì, perché noi no?

Dall’incombente Berlinale, con la triplice Diritti, D’Innocenzo e Ferrara in concorso, alla prossima Cannes, con l’assai probabile Moretti e poi chi altri?, e alla 77. Mostra di Venezia, non dobbiamo solo crederci, ma provarci: la Cina è vicina, sì, ma anche Hollywood.

PS: un Leone d’Oro italiano che vincesse l’Oscar Best Picture è l’unico sovranismo che vogliamo.