Orrore, orrore...Ci perdonerà Marlon Brando se prendiamo a prestito il suo monologo dall'inferno (Apocalypse Now), ma non ci veniva nulla di meglio. Venezia 68 - il concorso - è un lungo film dell'orrore. Un giallo rosso sangue. Come il colore delle paludi del Texas dove 70 corpi galleggiano appesi alla mano di uno stesso omicida (Texas Killing Fields di Ami Canaan Mann, figlia di Michael). Chiedono giustizia. Una parola dimenticata. Schiodata dai crociati dell'ingenuo idealismo politico (nel disilluso The Ides of March di George Clooney), fregati nel gioco a rimpiattino dei tradimenti e delle menzogne di un mondo che ha perso - ma l'ha mai avuta? - lealtà (Tinker, Tailor, Soldier, Spy di Tomas Alfredson). Giustizia dall'acqua che risputa tutto, invita a non dimenticare anche quando sommerge: impossibile non pensare ai barconi sfasciati e ai clandestini risucchiati giù, nel buco nero di ogni speranza, Terraferma o promessa che sia. Non che a riva sia paradiso. "Fine partita" verrebbe da dire, e non solo per la quantità di "adattamenti", dal teatro e dai romanzi. La vita stessa è teatrino, inganno, falsità (da Carnage di Roman Polanski a Cime tempestose di Andrea Arnold). Un'esperienza di seconda mano, un decalco della vita, della passione, dell'inerzia che fu. E se ci fossimo davvero venduti l'anima (come suggerisce il Faust di Sokurov)? Senza scomodare Freud - ci pensa del resto già Cronenberg con A Dangerous Method - aleggia ovunque un'inquietante pulsione di morte: il musicista della Satrapi ha letteralmente perso la voglia di vivere (Poulet aux prunes). Spopolano automi ed esuli dalla vita (Himizu di Sion Sono, Shame di Steve McQueen e The Exchange di Eran Kolirin). Ma è in Alps di Yorgos Lanthimos che la sindrome di Frankeinstein viene spinta fino alle estreme conseguenza, perché i sopravvissuti ai lutti non possono che continuare a vivere riproducendo i comportamenti e le personalità dei loro morti.
Il passato poi non è più una terra straniera, ma l'ultimo approdo possibile per i "senza avvenire" dell'impero. E chi prova a guardare il futuro giura: alle porte un'invasione aliena (L'ultimo terrestre di Gipi) o l'annientamento totale (4:44 Last Day On Earth di Abel Ferrara). L'amore, neanche a dirlo, ha smesso di salvare da un pezzo: rimangono i cocci delle promesse infrante, il cruccio dei vecchi amanti, la ruota delle relazioni spezzate. E' triste l'amore del terzo millennio (Quando la notte di Cristina Comencini) anche quando è burrascoso (Un été brûlant di Philippe Garrel). Il fremito della passione somiglia anzi all'ultimo spasmo di un condannato a morte. Tutto passa, dinastie (Taojie di Ann Hui) e civilità (nel costosissimo Seediq Bale di Wei Desheng, un'antica tribù aborigena taiwanese viene sterminata dall'esercito giapponese di occupazione, in un'epopea spettacolare a metà strada tra L'ultimo dei Mohicani e Apocalypto). E la risata, centellinata, stavolta ci seppellirà davvero: vedi le black comedy firmate da Friedkin (Killer Joe) e Solondz (Dark Horse). Mentre della commedia allegra (ma non troppo) italiana, che ha riempito pagine di giornale, risvegliato orgogli sopiti, spadroneggiato tutto l'anno, non v'è traccia in concorso, ricacciata alla periferia della Mostra (leggi sezioni collaterali e contenitori patrii). Se anche stavolta non vinceremo nulla l'atto di dolore degli illuminati custodi della nazione diventerà ira funesta. E allora sì, sarà "orrore, orrore...".