Quella di Alfonso Cuarón è una sfida che rasenta l'impresa. Un thriller sci-fi con soli due personaggi in scena, una trama esilissima e un profluvio di long take. Un paio d'ore dopo si contano appena 156 inquadrature per un film che di norma ne richiederebbe 2000, e piani-sequenza da 6, 8 e 10 minuti. Quello d'apertura esagera: minuti 17.

Roba da cinema sperimentale se non fosse un'operazione targata Warner, che proprio su Gravity punta forte in vista degli Oscar 2014. Per ambizioni e specifiche tecniche non era scontato. Dal progetto, che ha avuto una gestazione lunghissima (quasi 3 anni di lavorazione e un rinvio di 11 mesi della data di uscita), si sono sfilati prima la Universal, a cui da tempo Cuarón e il figlio Jonas avevano affidato la loro sceneggiatura, e poi attori del calibro di Robert Downey Jr., Angelina Jolie (che pretendeva un cachet da 20 milioni di dollari!) e Natalie Portman. Alla fine la scelta è caduta su George Clooney e Sandra Bullock, non proprio un ripiego. Budget finale: 80 milioni, non tantissimi ma nemmeno un'inezia.

Sandra Bullock, costretta a recitare senza make-up, è il cuore del film e una potenziale candidata agli Oscar; Clooney, bravo anche lui, ha un peso specifico ridotto rispetto alla collega e Gravity è il lavoro più ambizioso del regista messicano (coadiuvato come sempre dal direttore della fotografia Emmanuel Lubezki), un ritorno in grande a Venezia - apertura domani, fuori concorso - sette anni dopo I figli degli uomini.

La Bullock è Ryan Stone, ingegnere alla prima missione Shuttle, e Clooney il veterano incaricato di affiancarla. E' una “passeggiata”, ma un imprevisto lascia i due alla deriva, in balia del vuoto, l'oscurità, la solitudine e il silenzio. Le quattro grandi privazioni descritte da Burke, il filosofo della Darkness.