"Questa è una storia che sarebbe potuta accadere ovunque, da Stoccolma a Città del Capo, dal Giappone alla California: questi scontri generazionali, questa paura per ciò che di circostante minaccia un cambiamento, la mercificazione del corpo dei giovani e via dicendo. Ma per dare profondità a questi elementi ho cercato un teatro che conoscevo bene, e la cosa più rappresentativa da questo punto di vista è la lingua: storie sentite, raccontate qui nel Nord Est, sentite e raccontate nella lingua-dialetto che poi è nel film. Per superare la necessità dell'approfondimento psicologico bisognava andare nell'antropologia e non c'è niente di meglio della lingua pre-materna, primordiale, legata alla terra. I miei personaggi, i maschi adulti, non sopportano più nulla: l'istanza indipendentista è figlia di una completa sfiducia nei confronti del mondo politico, obnubilati dalla convinzione che ormai nulla andrà bene. I giovani, invece, sono in bilico tra la disperazione e l'inconsapevolezza". Alessandro Rossetto porta a Venezia, in Orizzonti, Piccola patria, esordio al lungometraggio di finzione che inquadra il Nord Est agricolo e operaio, il Veneto indipendentista e xenofobo, dell'integrazione e della disintegrazione, del lavoro e della crisi, una piccola patria che potrebbe essere ovunque, in Italia, in Europa, nel mondo. E' qui che durante una calda estate, due ragazze - Luisa e Renata (Maria Roveran e Roberta Da Soller) - diventano protagoniste di una storia di ricatti, e amori traditi. In mezzo a loro c'è Bilal (Vladimir Doda), fidanzato albanese della prima, inconsapevole "strumento" di una vendetta che non farà prigionieri.
Leonardo Di Costanzo con L'intervallo (che lo scorso anno a Venezia si aggiudicò il premio Luigi De Laurentiis per la migliore opera prima), Bruno Oliviero con La variabile umana, Alessandro Rossetto con Piccola patria, documentaristi che nel giro di un anno esordiscono con la prima opera di finzione: solamente una coincidenza? "La mia è una formazione dove questa demarcazione di genere non c'è mai stata, non mi sono quasi mai posto il problema della linea di confine, sono figlio di un'idea di cinema dove questo 'status' di genere non esisteva. E sono contento che finalmente anche in Italia ce ne stiamo accorgendo: nel mio caso, come in quello di Leonardo, ci sono parabole che ti portano a provare nuove soluzioni, nuove possibilità. Poter inserire la finzione in quadri di realtà, in termini di rischio, per me era molto interessante", dice ancora Rossetto, che spiega: "Gli elementi di forza del film, se ci sono, si devono al cinema che ho fatto prima. In sede di concezione, sapendo che avrei dovuto confrontarmi con questa esperienza, ho intuito che il terreno di ripresa avrebbe portato una miriade di elementi ai quali non mi sarei sottratto: per me fare un film è prendersi dei rischi, non temere il disequilibrio. La sceneggiatura che abbiamo scritto è una tragedia classica, nella tragedia c'è il coro e nel film il coro è demandato alla realtà. La preoccupazione era trovare la giusta distanza tra me e i corpi, tra la macchina da presa e l'immagine, e questo è un elemento proprio del documentario. Questo mi ha permesso di girare in maniera molto libera, con improvvisazione pura e scrittura dei testi durante le riprese. Utilizzando, come dicevo prima, strumenti documentari in un quadro di finzione".
Prodotto da Giampaolo Smiraglia e Luigi Pepe per Arsenali Medicei e Jump Cut, con il contributo del MiBac, con il sostegno della Regione Veneto e delle Film Commission del Sudtirol-Alto Adige, Trentino e Friuli Venezia Giulia, Piccola patria è ancora senza distribuzione.