"E' la prosecuzione di Giorni e nuvole, l'approfondimento di temi e umori già toccati in quel film. Alcuni miei amici volevano che riprendessi l'argomento. Così è venuto fuori Cosa voglio di più". Chi meglio di Silvio Soldini può raccontare genesi e intenzioni del suo ottavo lungometraggio, passato fuori concorso a Berlino e da venerdì in sala distribuito dalla Warner (in 270 copie)? Non di sequel si tratta, ma di un punto di vista diverso sulle questioni già poste nel precedente film: l'instabilità nel mondo del lavoro, l'insicurezza sociale che diventa inquietudine esistenziale, il precariato degli affetti, in una frase l'amore ai tempi della crisi.
"Ho avuto una lunga chiacchierata con un'impiegata che mi ha raccontato alcune vicissitudini professionali e private. La sceneggiatura ha rielaborato aneddoti e impressioni di quell'incontro". Ne è nato un soggetto che è quanto di più semplice si possa immaginare: un uomo e una donna s'incontrano per caso, s'innamorano, diventano amanti e rischiano di mandare all'aria progetti futuri e legami forti - lui, Domenico, un matrimonio con figli (Pierfancesco Favino), lei, Anna, una convivenza di lungo corso (Alba Rohrawacher con Giuseppe Battiston) - perché, come scrive il Jim Morrison citato dal film, "a volte basta un attimo per scordare una vita". "E' una situazione assolutamente normale, banale direi - prosegue Soldini -. Ma era questa la sfida: raccontare tutte le cesure, i paesaggi d'anima e le sfumature del quotidiano. E il modo in cui alcune circostanze obiettive, la realtà, la mancanza di soldi, il senso di sfiducia nel futuro, condizionano le passioni".
Vagamente disperato, il film suggerisce una situazione emotiva più che raccontare, lavora sulle luci, interiorizza il decor, manipola il visivo quel tanto che basta perché in filigrana s'intraveda la vita segreta delle immagini: edifici come gabbie, strade opache che si percorrono alla cieca, quadri che non ne vogliono più sapere di stare dritti alla parete. E primi piani sul dolore, bugie a catinelle, albe gelide nelle quali tutto ricomincia, come sempre, per inerzia, senza scopo. Sullo sfondo Milano: "Una storia del genere non potevo che ambientarla lì. Lei vive nell'hinterland e ogni giorno per lavorare viene in centro col treno. Lui in una specie di grattacielo periferico. Volevo indagare il rapporto tra centro e periferia, molto cambiato negli ultimi tempi, sia dal punto di vista sociologico che pittorico. Mi interessava fotografare un paesaggio urbano modificato, i centri commerciali, i lavori in corso, le costruzioni che avanzano". Lui forse non ha la forza necessaria  per scendere a patti con la realtà nè sufficiente coraggio per darle una svolta, lei sprigiona malessere in ogni inquadratura, come un ritratto dell'inquietudine. Conseguenze di una crisi economica certo, ma il disagio sembra venire da più lontano: "Credo che il film abbia un'architettura a strati - dice Favino - C'è l'amor fou e il sentimento coniugale, un'angoscia congenita e la preoccupazione per il domani, ci sono due persone che vivono una passione travolgente senza essere divi da copertina, una love-story orfana di glamour e un racconto sociale senza pietismi. E c'è un regista sensibile che racconta tutto questo, capace di tenersi in bilico tra distacco e partecipazione, straordinario interprete di una vicenda e di un milieu che non sono i suoi". Ma c'è anche, aggiungiamo noi, una forte componente sensuale, e sequenze di nudo che potrebbero imbarazzare attori non abituati: "Se ci fosse stata vergogna non le avremmo girate - interviene la Rohrwacher, per la prima volta senza veli sul set -. L'atmosfera attorno al set, la fiducia con Pierfrancesco e l'occhio discreto e mai giudicante di Silvio hanno vinto ogni ritrosia. E' stata un'esperienza totalizzante, viscerale, tra le più intense della mia carriera. Ma siamo attori, e per quanto si possa essere coinvolti dai personaggi che interpretiamo, non dimentichiamo mai di tornare ad essere quello che siamo, nella realtà di tutti i giorni".
Una curiosità: il titolo Cosa voglio di più, scelto da Doriana Leondeff (che ha sceneggiato il film insieme a Soldini e ad Angelo Carbone), riprende il verso di una canzone di Battisti che si chiama come la protagonista, Anna. Solo in un secondo momento regista e sceneggiatori si sono accorti che in quel verso era racchiusa l'essenza stessa del film. La sua domanda inevasa, l'orizzonte di senso.