“Veleno e Zazà, colti nel momento di passaggio dell'adolescenza, “il più crudo dei nostri tormenti”, per dirla con Rocco Scotellaro. E Annalisa, che vive una seconda adolescenza che scaturisce dal dolore, una perdita apparentemente incolmabile: la loro interazione è inevitabile”.
Così Pippo Mezzapesa, che esordisce nel lungometraggio narrativo con Il paese delle spose infelici, tratto dal romanzo omonimo di Mario Desiati, adattato con Antonio Leotti, Antonella Gaeta e il contributo dei giovani interpreti: “Una seconda scrittura: ho avvicinato i personaggi a loro, per catturarne la vitalità”. In concorso al Festival di Roma e dall'11 novembre in sala (30 copie) con Fandango, inquadra il borghese Veleno (Nicholas Orzella) e il proletario Zazà (Luca Schipani) che fanno dei campetti di calcio la palestra di vita, mentre Annalisa (Aylin Prandi) è una “sposa infelice”, l'Ilva una presenza minacciosa, criminalità e politica non aiutano.
“La quarta protagonista è il territorio avvelenato della provincia di Taranto: una bellezza arcaica e ferita morfologicamente (le gravine) e dal Polindustriale, con ciminiere e fumi che alterano i colori del cielo e dell'animo”, dice Mezzapesa, mentre Desiati sottolinea come “Veleno sono in parte io, e anche Pippo: la stessa terra e le stesse passioni, dopo aver visto film ho avuto 82 minuti di déjà vu, una seduta di psicanalisi. Il libro è molto diverso dal film, ma tradire è necessario: detesto quegli scrittori che “Oh, la mia opere letteraria me l'hanno stuprata”, e ho apprezzato come Pippo ha reso la solidarietà ferina  e feroce propria di una certa età e quel sentimento che non è ancora amore”.
Sulla stessa lunghezza d'onda, Mezzapesa: “All'inizio il tradimento è stato molto forte, ma la scarnificazione era a buon fine: riguadagnare l'essenza del romanzo, l'animo dei personaggi”. Il territorio privilegiato “è il campo di calcio periferico, il luogo ideale per far nascere un'amicizia: vengono meno i contrasti sociali, si può spogliarsi dei vestiti borghesi, sporcarsi di vita e realtà”, il tempo “quello amorfo degli anni '80, con populismo e qualunquismo dilaganti con la tv che fa irruzione nelle nostre case”, e il regista sottoscrive il corregionale Domenico Procacci, produttore con Fandango: “La pugliesità non è il motivo per fare un film. Viceversa, diciamo che oggi la Puglia inizia a trattenere suoi talenti”.
Film a parte , il festival di Roma e, nella domanda di un cronista, l'eterna querelle con la Mostra di Venezia: “Il Festival di Roma non è tra i primi 150 problemi del nostro cinema, e Piera Detassis sta facendo un buon lavoro di differenziazione”, taglia corto Procacci.