Critico del cinema per i Cahiers du cinéma, professore emerito alla Sorbonne e all’Ecole supérieure des Beaux Arts, nonché teorico dell’analisi filmica e studioso della raffigurazione cinematografica, Jacques Aumont ha ricevuto venerdì a Berna il Premio Balzan.

Secondo solo al Nobel, tra i più ambiti a livello accademico, dal 1961 questo premio viene conferito ogni anno a ricercatori e studiosi provenienti da tutto il mondo (quest’anno sono stati premiati il britannico Michael Cook per gli studi sull'Islam; il gruppo di ricerca tedesco formato da Erika von Mutius, Klaus Rabe, Werner Seeger e Tobias Welte per la Patofisiologia della respirazione e il matematico italiano Luigi Ambrosio).

Con Jacques Aumont, per la prima volta nella storia del premio Balzan, il cinema è stata una materia da ricompensare. L’intellettuale francese è quindi riuscito grazie ai suoi studi e ai suoi saggi e “per essere stato fondatore della filmologia come disciplina scientifica e universitaria” a far uscire una materia, come appunto il cinema, tradizionalmente non considerata dai grandi riconoscimenti internazionali alla scienza e alla cultura, dall’ambito mediatico dei premi di settore. Allora, a proposito di confini, secondo lei quale sarà la nuova frontiera della filmologia?

“E’ una domanda difficile e io non sono un profeta - risponde-. Gli studi di questa disciplina sono iniziati nel 1968-1969. E il periodo di maggiore sviluppo è stato intorno al 1980-85. Durante questi anni molte università hanno realizzato al proprio interno dipartimenti dedicati al cinema. Ora stiamo vivendo un arretramento degli studi umanistici e molti di questi dipartimenti non si occupano più di cinema, ma di comunicazione. Soprattutto negli Stati Uniti sta iniziando un movimento che è inquietante”.

Preoccupato dunque, come molti dei suoi colleghi, per il futuro dello studio del cinema. E’ altrettanto impensierito per le prospettive della critica cinematografica? “No - risponde deciso-. La critica è un’attitudine fondamentale dell’essere umano. La sua tradizione risale alla Grecia antica, poi si è sviluppata con la filosofia e il pensiero di Kant. Avrà dunque sempre un futuro e un suo ruolo all’interno del mondo del cinema”.

Nel frattempo però molte cose stanno cambiando, basta pensare al fenomeno di Netflix e ai diversi modi di fruizione dei film: “Netflix potrebbe essere una minaccia per il cinema e per la sala, ma questa non è una realtà per ora. Non è ancora successo. La sala è ancora importante. Basta pensare che nel 2018 il numero degli spettatori al cinema in Francia è stato superiore rispetto al 2017”.

Secondo Aumont c’è però un’altra minaccia che incombe sul cinema ed è quella di un “cambiamento dal punto di vista del modello economico”. “Per ora c’è ancora un modello che permette di avere delle produzioni importanti, come quelle che si fanno negli Stati Uniti o in Cina, e parallelamente avere dei piccoli film d’autore - dice -.  Netflix è una rete che è disposta ad accogliere questi piccoli film d’autore. Ma nessuno sa se poi questi giganti manterranno una parte un po’ più autoriale”.

Tanti i cambiamenti in corso di cui non è ancora dato sapere. Sicuramente da insegnante universitario avrà comunque visto dei cambiamenti di generazione in generazione.

“Certamente. Ci sono fenomeni che vanno di moda. Un tempo c’era Wim Wenders, alla fine degli anni ottanta piaceva a tutti e tre su quattro studenti proponevano una tesi su di lui. Poi all’inizio degli anni novanta c’è stato il filosofo Gilles Deleuze. Ora, dagli anni duemila, tutti i giovani si sono resi conto dell’importanza del digitale e hanno voluto lavorare su questo settore. Però allo stesso tempo ci sono anche sempre stati dei progetti originali, che non seguivano una moda precisa. Per esempio molti studenti hanno voluto approfondire il cinema indiano”.

Recentemente Martin Scorsese ha stroncato i film della Marvel dichiarando che non sono cinema. Lei è d’accordo con quest’affermazione?

“Mi dispiace contraddire Scorsese, ma per me questa è una sciocchezza- risponde- .E’ semplicistico dire queste cose, perché anche io, che sono uno specialista dell’estetica, trovo nelle opere popolari e di grande diffusione delle cose molto belle e interessanti e delle invenzioni. Non c’è affatto un antagonismo tra le opere popolari e la ricerca estetica e cinematografica”.

Parlando invece del cinema italiano, secondo lei c’è qualche regista semanticamente interessante?  

“Sarà delusa dalla risposta. Per me le cose più interessanti ora dal punto di vista cinematografico sono nell’America del Sud e in Asia. Attualmente il cinema italiano mi sembra un po’ automatico, banale e da ricetta narrativa. Ma penso la stessa cosa del cinema francese”. Cosa hanno invece di singolare queste altre cinematografie? “La dimensione che mi sembra più importante nell’America del Sud è l’inventiva, soprattutto in un paese come l’Argentina perché loro hanno una base europea, ma poi ne fanno una reinterpretazione. Penso al film La flor (ndr. diretto da Mariano Llinás del 2018) che dura tredici ore, diviso in sei episodi. Per quanto riguarda l’Asia trovo molto interessante il cinema cinese, ma anche quello coreano, perché è basato sulla sensibilità e sulla sensazione”

Sì, però allora almeno un titolo di un film di Fellini che le è rimasto nel cuore, visto che nel 2020 saranno cent’anni dalla nascita del grande regista romagnolo.

“Ah sono moltissimi i suoi film che ho amato- dice-. I miei preferiti forse sono stati Intervista (1987) perché è un film personale e poi un cortometraggio (1968) che si intitola Toby Dammit,episodio di chiusura del film a sei mani Tre passi nel delirio. Davvero un capolavoro”.