Vedere Isabella Rossellini appoggiata ad un enorme pancione che parla attraverso frasi celebri pronunciate ai tempi dal padre Roberto, sembra più una gag tv dei Monty Python che un cortometraggio di Guy Maddin. Certo, My dad is 100 years old, che ha aperto il 23esimo Torino Film Festival, è una curiosa allegoria con marchio Maddin in evidenza soprattutto nella creazione di una peculiare atmosfera onirica e nell'applicazione coerente di un'idea che voleva essere di felice riproposizione di un rapporto padre-figlia probabilmente mai pienamente compiuto in vita. La Rossellini in compenso si traveste da Hitchcock, da David O. Selznick, da Fellini, perfino da Ingrid Bergman, per circumnavigare, letteralmente, questo ventre abnorme e parlante, ripreso in dettaglio, che sostituisce l'assenza: papà Roberto Rossellini. Motivo del discorrere in video è la travagliata carriera del padre, amato e disamato dal pubblico, amato e disamato dalla critica, amato decisamente molto da Isabella. Per nulla agiografico, quindi, il cortometraggio del regista canadese, che gioca sul ricordo, sull'iconografia baldanzosa e creativa dei miti del cinema, bianco e nero compreso, titoli di coda d'epoca che sfarfallano pure.
Sulle strade del personaggio celeberrimo è andato pure l'oramai indecifrabile James Mangold, uno di quelli che aveva iniziato da indipendente ed ora si ripropone continuamente con storie di loser, ma con un budget high class. A togliersi di dosso l'indecisione critica che lo accompagna negli ultimi cinque/sei anni non lo aiuta di certo la figura al centro di Walk the line, quel Johnny Cash che tutto è stato fuorché l'archetipo di un moderno mito. La maledizione che ha accompagnato Cash, non è stata né la distruzione psicofisica alla Elvis, né il barbino rifugio sessuomane e morfinomane alla Ray Charles: ma quella di una semplice e comunissima fuga, sicuramente disperata e al limite della sopravvivenza, dal reale brutto e cattivo della fama a tutti i costi, quando dal passato preme uno scontro edipico da far paura. Cash attraversa la placida America dei fifties, plana nel bel mezzo dei rivoluzionari '60 e '70, atterra su un palco dell'Ontario con una promessa di matrimonio (quella tra Cash e la cantante June Carter) che durerà magicamente per altri (verissimi) trent'anni. Fa difetto alla ricostruzione mangoldiana, una impersonale proposta di sosia (di Elvis, di Jerry Lee Lewis) come di eventi storici (il concerto in carcere, la scena clou in Ontario) che non possono che essere la clonazione dell'occhio e dello sguardo del già visto dai presenti all'epoca, attraverso la patina nostalgica di conoscenze visive che già ci appartengono: Elvis col ciuffo, Lewis pure ma platinato, l'esibizione canora inquadrata come se lo facesse un qualsiasi regista tv che ad un certo punto lascia spazio alla reclame: come dire Mangold o qualunque altro a riportarci quei fatti, chi se lo ricorderà mai? Peccato perché la Witherspoon (mora) e Phoenix Joaquin ce la mettono tutta per sfumare i tratti caratteriali dei soliti volti noti.
Operazione differente, che meriterebbe discorsi ben più ampi, è il film fiume, all'interno dell'importante sezione torinese "Focus on Filippine", del filippino Lav Diaz: Evoluzione di una famiglia filippina. Dieci ore e 46 minuti di proiezione, nove anni di lavorazione, storia infinita di una famiglia contadina all'epoca della dittatura di Marcos e signora, fino alla destituzione e alla democrazia un po' meschina di Corazon Equino. Frammenti di video dell'epoca, quindi, poca contraffazione e nessun clone hollywoodiano dejà-vù, affiancati alla fiction che inquadra la povertà di un mondo rurale in perenne difficoltà. Ieri mattina al cinema Greenwich di via Po, hanno iniziato a proiettare alle 10 e i presenti erano ben pochi. Alle 21 sono rimasti in quattro: beati loro, perché la forza espressiva del film di Diaz (per intenderci uno che meno di due ore in media davanti allo schermo non ti lascia) è visivamente travolgente e profuma di cinema nuovo.