Dietro le sbarre il tempo rallenta, a momenti si ferma. I volti sembrano tutti uguali, indistinti, invisibili. Non è così per Marco Santarelli, che ha realizzato nella casa circondariale di Bologna Dozza il documentario Milleunanotte, prodotto da Ottofilmaker e Pulsemedia e in cartellone al Festival di Roma. 
“Volevamo abbattere il muro che vuole i detenuti senza una storia”: lo ha spiegato il regista, che in quel carcere ha trascorso cinque settimane intervistando i detenuti, i mediatori culturali e gli operatori. “L'idea è nata dai racconti di un volontario con la comunità magrebina”. Dozza, infatti, ha la maggiore concentrazione di detenuti extracomunitari in un carcere italiano, pari ad oltre il 60% della sua popolazione, e si trova in una situazione di sovraffollamento, con una presenza di quasi tre volte superiore a quella regolamentare. Un terzo dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza e alcuni di loro hanno raccontato il proprio passato alle telecamere. “La maggior parte degli stranieri - racconta Fatima, mediatrice culturale - non parla italiano, non ha familiarità con la prigione ed è condannata per reati che non capisce ma tutti hanno accettato l'intervista”.
Alcuni di loro sono stati ripresi in momenti di sconforto, alle prese con lo sciopero della fame, in fila per una visita medica o alle riprese con la richiesta di una telefonata. Permessi, richieste, domande: la burocrazia dietro queste mura procede attraverso piccoli passi ben definiti. C'è chi sogna un matrimonio, chi spera in un lavoro e chi invece vorrebbe solo vedere la propria figlia e le dedica una canzone rap appena scritta.
Le situazioni sono variegate così come gli stati d'animo: a volte insofferenza e rabbia cedono il posto alla rassegnazione o diventano il primo passo di un percorso verso il ritorno al mondo esterno, come Agnes di Bolzano, che viene seguita dalla troupe del documentario durante il rientro a casa per un permesso di 5 giorni. La proposta di un occhio esterno sul proprio privato ha lasciato inizialmente perplessa la donna, a cui manca solo un mese per finire di scontare la pena, perché dubbiosa sull'accoglienza che la famiglia avrebbe riservato alle telecamere. “Pochi giorni prima del ciak - spiega lei stessa - avevo sostenuto al DAMS l'esame di Analisi del film, allora mi sono convinta e ho accettato”. Parla a voce bassa, per pudore, ma ti guarda dritto negli occhi, senza vergogna: la storia di Agnes ha posto al regista quella che definisce “la sfida più grande, la scelta sofferta di uscire fuori dal carcere e prendere un'altra strada. È arrivata durante l'ultima settimana di riprese e ha cambiato il corso del documentario, portandoci a raccontare il detenuto oltre la cella, in mezzo alla gente, in condizioni di normalità”.