"Il Muro di Berlino ci ha dato una lezione: la propaganda di regime sul socialismo era una pura menzogna, ma le sue profezie sul capitalismo si sono avverate". Soppesa le parole Nikita Mikhalkov. Raccoglie i pensieri, si perde con lo sguardo nel vuoto e poi piazza il suo affondo, con la disarmante semplicità di chi ha vissuto 40 anni di Comunismo: "Molti si illudevano che con la Perestrojka sarebbe cambiato tutto. La globalizzazione ci è stata venduta come fratellanza universale, ma ci sta ricatapultando in quella cultura del sospetto che speravamo archiviata". Non parla da politico Nikita Mikhalkov, ci tiene a sottolinearlo. La sua è un'esperienza sul campo, una lezione di vita che è tornato a ribadire con Persona non grata di Krysztof Zanussi, presentato all'ultimo festival di Venezia e ora in sala dal 3 febbraio. Di nuovo sul set dopo tanti anni in macchina da presa, al maestro polacco si è prestato insieme a Zbigniew Zapasiewicz e a Jerzy Stuhr, per un pamphlet ironico e dissacrante sulle paludi e le finzioni della politica nella Polonia della democrazia apparente. L'immediata intesa col regista non sorprende. Figli delle stesse speranze e disillusioni, i due si sono trovati sul comune territorio del controverso rapporto fra tradizione e rinnovamento. Per Mikhalkov è molto più di un filo rosso. Oci Ciornie, Urga, il premio Oscar Sole ingannatore: i suoi film parlano di un'esperienza maturata tra le macerie della Guerra Mondiale, il miraggio dell'egalitarismo di massa e la frustrazione di una rivoluzione incompiuta. La prospettiva privata può essere spiraglio e grimaldello per scardinare l'ortodossia, apprende fin da piccolo. "L'arte è un signore molto potente", gli diceva il bisnonno Vassily brandendo il pennello. Un credo laico poi ripetuto in famiglia dal nonno Pyotr, anche lui pittore, dalla madre Natalkia e dal padre Sergei, autore per bambini a cui l'ironia della sorte ha affidato il testo dell'inno sovietico. A iniziarlo al cinema è a 16 anni il fratello Andrei Konchalovsky, che lo avvia alla recitazione prima e alla regia poi. Il suo mentore è Mikhail Romm, lo stesso di Tarkovskij. Da lui apprende la forza visiva e narrativa del cinema. Ne fa un verbo, uno strumento divulgativo per scuotere la sua Russia: "Prima della Rivoluzione l'unica legge accettata dal popolo era quella divina - dice -. I bolscevichi, poi, hanno semplicemente rimpiazzato il culto di Dio con quello di Stalin". Nelle sue parole non c'è condanna, ma una lucida amarezza che lo induce a parlare di corresponsabilità: "Non create idoli da venerare, mettevano già in guardia le Sacre Scritture. Noi abbiamo fatto l'esatto contrario e ci siamo così resi complici del nostro destino". Si accalora e si appassiona Mikhalkov, ma una cosa non riesce proprio a capirla: "Tanti russi si sono sbarazzati del loro passato senza pensare. Al crollo dell'Unione Sovietica si sono abbandonati al capitalismo, rinunciando a qualsiasi interrogativo. Si sono fatti abbindolare dalla prosopopea dei Nuovi Bolscevichi, secondo cui tutto ciò che è seguito alla Rivoluzione di Ottobre va spurgato dalla nostra memoria". Nostalgico? Per carità. Obiettivo dei suoi film, dice, è però sempre stato anche quello di alimentare il dibattito e la riflessione. "E' impossibile andare avanti senza guardarsi consapevolmente alle spalle. Riscattare il Paese da colpe non sue è il presupposto per qualsiasi vero progresso". E in questo, conclude, il nuovo cinema russo si sta rivelando assai più lungimirante della politica: "Lo alimentano energie sempre più fresche - dice -. E' come un bacino, pronto da un momento all'altro a straripare in un fiume in piena".