“Il mondo è multilivelli, ci sono diverse possibilità di sopravvivenza, ma oggi la conflittualità sta raggiungendo limiti estremi”. Parola dell’artista ed esordiente regista Ai Weiwei, che porta in Concorso a Venezia 74 il documentario Human Flow.

Dal 2 ottobre in sala con 01 Distribution, il dissidente cinese racconta le migrazioni di 65 milioni di persone alla ricerca di sicurezza, giustizia, vita. Un anno e più di riprese, 200 persone nella troupe, 23 Paesi visitati, dall’Afghanistan all’Italia (Lampedusa), dalla Turchia al Kenya, dal Messico all’Iraq, Ai Weiwei inquadra uomini, donne e bambini, passando da campi a centri di accoglienza, muri e mari, portando su schermo il dramma e la speranza, la disumanità e la resistenza.

“A parte le differenze del background (povertà, disastri ambientali), tra questi profughi soprattutto mi hanno colpito i bambini, la loro curiosità per la nostra troupe nonostante tutto. Sì, oggi ci siamo persi il loro sguardo di innocenza”, dice l’artista. E difende la bellezza del film: “Nella storia ci sono sempre state grandi sofferenze, diverse e continue, la tragedia rifugiati ne è una sola parte, e l’evoluzione umana ha tratto forza motrice dalla bellezza. Il dolore ha portato potenza a questo desiderio, e un artista deve guardare la realtà e nonostante l’ambiente brutale conservare la bellezza”.

Non è nuovo Weiwei al cinema, o meglio all’audiovisivo di matrice artistica e alle installazioni, ma per Human Flow vuole sottolineare che “il cinema non è realtà, un documentario non è realtà, ma l’estetica lavorata da chi racconta produce una nuova realtà”.

Qui è stato “importante il processo per raccontare e comprendere questa marea umana” e quindi “capire quale linguaggio, ritmo e inquadrature scegliere”: lo stile, dice Weiwei, “è messaggero della realtà, esprime il contenuto in quanto veicolo, e per linguaggio, poesie, informazioni di Human Flow ho scelto lo stile del collage”.

Se “l’Italia è un paese con una lunga storia di immigrazione ed emigrazione, e grazie alla sua posizione geopolitica ha dovuto e deve gestire rapporti col mondo in maniera peculiare, ha ancora oggi una comprensione privilegiata del fenomeno migratorio, ma non lo può gestire da sola perché è globale”, Weiwei allarga appunto il campo: “La soluzione riguarda tutti noi, non solo i rifugiati. Gli individui devono afre pressione sui politici, tutto deve iniziare da noi”.

Occuparsene, per Weiwei, è quasi fisiologico: “Sono nato in una situazione quasi uguale a quella dei rifugiati, mio padre è stato esiliato, abbiamo vissuto per vent’anni in un buco in terra, ho saputo che significa essere escluso come nemico dello stato e costretto a pulire i cessi. Conosco dal profondo che significa essere torturati fisicamente e psicologicamente, dunque, ho sentito da subito cura e tutela per i rifugiati”.

Se “il motore di sopravvivenza principale che ho visto nei migranti è l’amore”, Weiwei conclude sulle responsabilità dell’arte e degli artisti: “L’arte, gli artisti, questo gruppo speciale di persone deve essere sensibile alla condizione umana, non indifferente alla bellezza, e quando ci sono grandi tragedie devono farsi sentire e so che molti vogliono farsi coinvolgere. Ma non è facile far sentire la propria voce, da questo punto di vista posso ritenermi fortunato”.