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“Sono di quella generazione che è nata leggendo i fumetti classici, ma che è stata anche molto influenzata da grandi autori del fumetto: Robert Crumb, Alberto Breccia, Hugo Pratt, José Muñoz”. Ha esordito così il fumettista, illustratore e regista di animazione Lorenzo Mattotti, che ha firmato il manifesto della decima edizione di Ca’ Foscari Short Film Festival e che nella serata di giovedì 8 ottobre ha incontrato il pubblico e ripercorso la sua quarantennale carriera con un’intervista a cura di Davide Giurlando. “Per noi il fumetto era alla stessa stregua del cinema, della letteratura, della musica rock, della poesia: era l’espressione della nostra vita, della nostra cultura, non facevamo divisioni tra bassa e alta cultura. Ho cominciato a disegnare le situazioni che vivevo: i concerti, i festival, la realtà che vivevo a Milano. E piano piano questo linguaggio si è sviluppato: con Valvoline abbiamo cominciato a pensare al fumetto come viaggio interiore, personale”.
Sulle diverse forme di linguaggio esplorate con i suoi fumetti, Mattotti ha aggiunto: “Ho sempre pensato alle mie storie come se fossero dei film o dei libri di letteratura. Ogni volta la storia mi ha permesso di esplorare diverse tecniche, diverse modalità espressive: Jekyll & Hyde è stato costruito sul filo rosso dell’espressionismo, da quello tedesco per arrivare fino a Bacon; con Caboto ho esplorato la pittura del seicento; Il rumore della brina mi ha dato l’occasione di affrontare la contemporaneità ed è quindi influenzato da David Hockney e dagli autori del realismo americano”.
Dal fumetto, il passaggio all’illustrazione e ai libri illustrati è stato un percorso quasi automatico: “Illustratore sono diventato quasi per caso. Mi sono accorto che rispetto a fare una tavola di fumetto fare una singola immagine era più semplice. Il fumetto mi ha dato una base molto forte per arrivare a sviluppare immagini più grandi. All’inizio il mio stile era molto tradizionale, poi ho sviluppato delle idee che sono diventate espressioni del mio mondo personale. Con Lou Reed ho lavorato a The Raven e ho avuto occasione di esplorare un lato molto oscuro del mio lavoro, ho avuto il coraggio di tirarlo fuori e pubblicarlo: è stata una collaborazione molto intensa e molto importante”.
Parte fondamentale della carriera dell’artista sono state le numerosissime collaborazioni con importanti riviste internazionali, cui ha fornito illustrazioni e copertine: “Ogni medium ha le sue regole. Fare una copertina è diverso dal fare un manifesto. Nei giornali devi mettere delle immagini che sono un “concentrato” e anche se puoi usare stili diversi, devi sempre essere molto veloce a realizzarle; in un libro puoi entrare più in profondità e devi rispettare una continuità narrativa. La serie che ho fatto per Le Monde affrontava ogni mese un romanzo diverso: mi sono concentrato molto sulla composizione, è stata una grande scuola per me”. Tante anche le collaborazioni di Mattotti con le riviste di moda: “Dovevo lavorare molto velocemente e la prima idea doveva essere quella buona. Mi concentravo molto di più sui tessuti che sulla composizione: è stata una grande esperienza nell’esplorare la materia”. E ovviamente il lavoro con il New Yorker: “È estremamente difficile fare le copertine per loro, ti danno un tema e poi gli schizzi passano per vari editori e devono essere approvati. Le scadenze erano molto strette e senza internet era sempre una sfida fare arrivare le immagini in tempo. Certo, per lavorare davvero con il New Yorker dovresti vivere a New York, per poter lavorare sui temi di attualità: dall’esterno io ho lavorato soprattutto su temi generici”.