La puttana e la santa, la manipolatrice e la mantide religiosa. Quattro storie di donne, quattro ruoli femminili forti. In un momento in cui la questione di genere incendia Hollywood (l’ultima a lamentarsi del maschilismo d’Oltreoceano è stata Emma Thompson), il vecchio cinema patriarcale italiano rimette le donne al centro della scena. Demonizzate, idealizzate, odiate, amate, raramente capite, ma di nuovo al centro. Sotto lo sguardo incommensurabile del merlo maschio. Marco Bellocchio (1939), Giuseppe Gaudino (1957), Luca Guadagnino (1971) e Piero Messina (1981) puntano al Leone portando quattro ritratti di signora che sono anche i quattro profili cubisti di uno solo.

In Sangue del mio sangue di Bellocchio, una nobildonna è costretta a farsi suora nell'Italia del diciassettesimo secolo. Dopo aver sedotto il giovane uomo d’armi Federico e il suo gemello prete, viene accusata di stregoneria e condannata ad essere murata viva nelle antiche prigioni di Bobbio. Un’operazione che mette la storia patria sul lettino dello psicanalista e dell’indagine iconologica, al pari di Vincere: svelando, dopo il complesso del Duce, l’ossessione (allegorica e letterale) del femminicidio. In Per amor vostro di Gaudino, Valeria Golino è Anna, donna dal passato ingiusto e amarissimo e un presente fatto di responsabilità, generosità e tre figli. E’ fatta di luce e di ombre, è la luna e il suo dark side, nascosto sull’altra faccia del cielo. E l’anima contesa da angeli e demoni. Tra le bellezze di Napoli e gli orrori del sottosuolo.

E poi c’è una seconda Anna, l’impenetrabile matrona siciliana del film di Messina, costretta a condividere L’attesa per il figlio con quella che si presenta come la futura nuora, Jeanne. Un vortice di tensioni primitive attorno al fantasma del maschio. Esattamente l’inverso di quello che succede nel film di Guadagnino, A Bigger Splash, dove gelosie e rivalità maschili esplodono attorno al corpo non di una, ma di due donne. L’adulta e la Lolita. Forse la stessa sotto la lente deformante del tempo.

Un’insospettabile comunione d’intenti, con le dovute differenze. Perché la molla psicanalitica e la sapienza filmologica di Bellocchio è altra cosa rispetto alla sensibilità mercuriale e la potenza mitopoietica di Gaudino, mentre l’infatuazione per le superfici e per la scorza stessa delle immagini – feticismo traslato di un desiderio tutto epidermico? – sembra apparentare maggiormente i due in erba del quartetto, Guadagnino e Messina.

L’occasione è da non perdere. Una riflessione sul femminile aprirebbe orizzonti inediti per il cinema italiano e potrebbe agire da stimolo anche per l’assopito mondo della cultura. Da troppo tempo mancano intellettuali capaci di scavare a fondo nella “personalità” del paese, di tirarne fuori il rimosso, scartavetrarne le pulsioni sotterranee, i miti fondativi.

A differenza dei protestanti che hanno continuato a interrogarsi sull’archetipo del “Padre”, inteso come principio d’individuazione, fonte di autorità e garanzia di sanzione (indipendentemente dalla qualità della ricerca, investendo la questione tanto il cinema d’autore quanto quello di genere), noi popoli del Mediterraneo, mammoni e cattolici, non abbiamo saputo fare altrettanto con l’eredità di Afrodite, la venerazione della madre e il culto della Madonna. E con quanto la radice matriarcale della nostra cultura (e la pulsione latente del femminicidio come risvolto) ne abbia condizionato identità e valori. Per troppo tempo il nostro intellettuale è stato disorganico: di fronte all’enigma del chi siamo noi, ha preferito ripiegare sulla trincea del chi sono io. Abbiamo sventolato il santino della mamma per non piangere sulla tomba dei padri, impedendoci così di sviluppare una nuova, seria coscienza del femminile.

“La guarigione”, ha scritto Hillman, “potrà iniziare soltanto quando ci saremo lasciati alle spalle il mito della madre”. La medicina somministrata a Venezia non basterà, ma almeno è un inizio.