"Sono un comunista spontaneo in un'Europa che non riconosco": Robert Guédiguian, regista di Le nevi del Kilimangiaro, dal 2 dicembre in sala distribuito da Sacher, non usa mezzi termini e fa leva sull'ironia quando parla di cinema e impegno sociale. Il film, all'ultima mostra di Cannes nella sezione Un Certain Regard, lo scorso 16 novembre ha vinto, ironia della sorte, la 5° edizione del Premio Lux, assegnato dal Parlamento Europeo.
Liberamente ispirata a un poema di Victor Hugo ("Les pauvres gens") e ambientata in un quartiere operaio di Marsiglia, la pellicola racconta lo scontro di due diverse condizioni sociali, riflettendo sulle contraddizioni del mondo sindacale e quello del lavoro. "Il mio film però ha una visione conciliatrice e la solidarietà tra i protagonisti non è la soluzione, ma un inizio: una presa di coscienza di classe - spiega Guédiguian - con cui ripropongo in scala più piccola i conflitti che viviamo".
Il regista francese parla della genesi del film: "A suo tempo scrissi un articolo contro la costituzione europea e come titolo avevo scelto quello di un poema di Hugo, Les pauvres gens. Leggendo l'opera ho capito che sarebbe venuto fuori un film fantastico. L'Unione Europea? E' nata per dire 'basta' alle guerre tra Francia e Germania! A parte gli scherzi, non ho capito cosa sia. Se fosse una realtà socialista vi aderirei ma non mi sento rappresentato da un'entità identitaria: cos'è il mercato comune? E l'Europa 'cristiana'?".
Sulla stessa linea Ariane Ascaride, una delle protagoniste: "Oggi i sindacati hanno smesso di lottare, si limitano a difendere ciò che hanno conquistato. In Francia la situazione è migliore che in Italia ma non basta. Di recente ho visto su Rai3 un'inchiesta sugli operai di Termini Imerese che da un giorno all'altro si ritrovano senza lavoro. Il film di Robert è solo un 'gesto', ma è un inizio. Sembra semplice, ma chi lo fa oggi questo gesto?".
Nonostante il dramma trattato, Le nevi del Kilimangiaro vive di atmosfere lievi: "E' vero - conferma Guédiguian - non volevo un'opera cupa e pessimista: soprattutto nel finale, domina la luce e sovente la fotografia è sovraesposta. Anche per questo abbiamo girato in pellicola e non in digitale, cosa che non ci avrebbe permesso di gestire bene la luminosita'".
E sulla sua predilezione per ambientare le storie nel 'milieu' marsigliese che lui ben conosce, il regista si lascia andare a una battuta: "Non posso stare sempre lì, non me lo perdonerebbero. A dire il vero, mi piacerebbe molto fare un film a Tokyo, ma non è escluso che, magari tra quattro-cinque anni, non torni a girare ancora nella mia Marsiglia".