Nessun altro attore ha saputo incarnare nel nostro paese la figura del ribelle come Lou Castel. Merito de I pugni in tasca di Bellocchio (1965), che lo ha strappato all'anonimato. Della militanza politica di sinistra che gli costerà l'espulsione del nostro paese nel 1972. Dell'incrollabile fede nei propri ideali "sconfitti dalla storia" ma mai rinnegati.

Apolide (è nato a Bogotà da padre svdese e madre inglese, vissuto tra Colombia, Stati Uniti, Svezia, Italia e Francia, dove tuttora risiede), attore di talento (oltre che per Bellocchio, Lou Castel ha lavorato per la Cavani, Fassbinder, Wenders, Ruiz e per registi più popolari quali Samperi, Campanile, Lenzi), artista poliedrico (negli ultimi anni si è dedicato soprattutto alle video-istallazioni e al ready-made), grande irregolare del cinema europeo, Lou Castel, al secolo Ulv Quarzéll (cognome cambiato in Castel dalla madre una volta trasferitasi col figlio in Italia "perché suonava meglio"), è a Torino per presentare A pugni chiusi di Pierpaolo De Sanctis (in concorso a Italiana doc), il primo documentario a lui dedicato.

Non una biografia tradizionale ma una lunga camminata per Roma in cerca di ricordi, storie, riflessioni profonde. Un uomo sempre controcorrente, con una consapevolezza unica e preziosa del proprio mestiere e delle sue implicazioni estetiche e politiche.

Un uomo che ha scelto di raccontarsi solo adesso, a 73 anni, nonostante non sia "facile parlare di se stessi - dice ai nostri microfoni - . I luoghi di Roma mi hanno "agito", attivando una sceneggiatura che era già scritta dentro di me". Perciò A pugni chiusi non è un monologo, ma un dialogo, tra Lou Castel e il regista, tra Lou Castel e la città, tra Lou Castel e Lou Castel. L'uomo e le sue molteplici maschere, ipotesi delle tante trasformazioni: "Il mio destino è l'incoerenza", ammette con la stessa franchezza con cui si concede alla mdp di Pierpaolo De Sanctis, "capace di spingermi da qualche parte, anche se ogni tanto dovevo essere io a orientare lui. Perché? perché mi conosco meglio". Perciò Lou Castel considera questo lavoro "la mia prima regia in carriera". Lui che ha sempre ribadito in realtà che "l'attore è il primo regista di se stesso in scena".

Ennesima rivendicazione di una vita spesa spesa per la libertà, massima espressione dell'umano. Come quella classe operaia che doveva affrancarsi dal gioco dei borghesi, così l'attore doveva riconquistare il suo spazio di autonomia all'interno della messa in scena. Non è un caso che Castel abbia compiuto in toto la sua parabola artistica, da attore ad autore. In mezzo tanti successi e passi falsi, come nelle migliori vite. Ricorda: "Al successo de I pugni in tasca non ero preparato. Il film sembrava più maturo di quanto non lo fossi io come attore. In un certo senso era superiore alla somma dei nostri talenti". Sull'espulsione: "Quando è successo mi trovavo come in un deserto: non facevo i film che mi piacevano e non militavo." Oggi come allora ignora il mandante: "Ce l'avevano con me. Ma non solo con me. Alcuni dicevano che finanziavo il movimento maoista, altri che fosse per colpa della mia fidanzata di allora. Credo che culturalmente l'Italia fosse di stampo mussoliniano. Viveva il fervore ideologico comunista come uno shock. Perciò quando i due agenti di polizia mi condussero in aeroporto decisi di farmi fotografare con il pugno alzato. Era l'ideologia quella che volevano? Io gliela davo".

Lou Castel non condanna certe posizioni di allora, pur ammettendo che "sono stati commessi molti errori. A posteriori si possono riconoscere, ma a me non piace parlare a posteriori". E nemmeno giudicare l'impolitico, svuotato presente: "Chi può dirlo? Non si possono fare processi. Occorre studiarlo meglio, capire di che cosa stiamo parlando".