“Ho mollato la scuola superiore, non sono bravo a fare analisi politiche quindi non so quale sarà il futuro del Medio Oriente. Posso parlare della mia esperienza personale  e non posso affermare che il governo libanese non voglia la pace sociale. Il Libano non è una dittatura, ma non è mai stato fatto uno sforzo consapevole e cosciente per riconciliare le persone”.

Parola del regista libanese Ziad Doueiri che porta in sala un dramma giudiziario che si svolge a Beirut.  Tutto nasce da un insulto (e infatti il film, candidato agli Oscar 2018 e in uscita nelle nostre sale il 6 dicembre distribuito da Lucky Red, si intitola proprio L’insulto): “Sono un collezionista di cactus e li stavo annaffiando quando un po’ d’acqua è finita su uno degli operai che stavano lavorando lì sotto. La situazione si riscalda e finiamo per insultarci a vicenda. Lui mi ha dato del “pappone” che in arabo è un’offesa gravissima e io gli ho risposto ancora peggio: avrei preferito che Ariel Sharon vi avesse sterminati.  A quel punto mia moglie Joëlle Touma, che nel frattempo è diventata la mia ex moglie e che è anche la cosceneggiatrice del fim, mi disse: come puoi insultare i palestinesi in questo modo? Scendi e vatti a  scusare. E così ho fatto,  il problema si è risolto. Ma  da lì mi è venuta in mente una storia che partisse da un incidente stupido come questo e che anziché chiudersi diventasse sempre più complicato e complesso”.

Partendo da un banale litigio nel film infatti i due protagonisti, il libanese cristiano Toni (Adel Karam) e il palestinese Yasser (Kamel El Basha), finiranno addirittura in tribunale e la semplice questione privata tra i due diventerà un caso nazionale, un regolamento di conti tra culture e religioni diverse.  Al processo, oltre agli avvocati e ai familiari, si schiereranno così due fazioni opposte di un paese che riscopre in quell’occasione ferite mai curate facendo riaffiorare un passato che è sempre presente. “In Libano un incidente stupido come questo potrebbe portare ad avere problemi. Questa storia è nata senza rifletterci come se si fosse aperta una diga”, dice il regista.

Una volta finito il trattamento  Joëlle Touma gli ha dato una mano: “Lei viene da una famiglia di estrema destra ed è cresciuta con forti sentimenti antipalestinesi, io invece vengo dall’estremo opposto: una famiglia fortemente pro Palestina. I miei genitori sono dei militanti e hanno origini mussulmane e sono cresciuto con un sentimento anticristiano, di sinistra. Così lei ha scritto le scene dell’avvocatessa che difende il palestinese, mentre io quelle dell’avvocato che difende il cristiano. Questo ci ha permesso di creare empatia per l’altro ruolo ”.  Ad aiutarlo nella stesura del film anche sua madre: “un avvocato che ha fatto da consulente giuridico”.

“Ho sempre voluto girare un dramma giudiziario”, continua il regista che è emigrato da Beirut negli Stati Uniti  all’età di diciannove anni e che ha frequentato la scuola di cinematografia a San Diego, lavorando poi come assistente, anche di Quentin Tarantino, a Hollywood. “Gli americani hanno perfezionato questo genere e la tecnica di mettere in dubbio l’establishment.  Durante la scrittura della sceneggiatura ho rivisto tanti film giudiziari americani: Il verdetto e La parola ai giurati di Sidney Lumet, Philadelphia di Jonathan Demme e Vincitori e vinti di Stanley Kramer. Ho realizzato diverse scene all’interno del tribunale , che non dovevano riguardare gli aspetti tecnici giuridici, ma rivelare la personalità dei personaggi, e per non essere ripetitivo insieme al direttore della fotografia abbiamo girato in modo tale che non ci fosse una scena uguale all’altra”.

 L’insulto è per il regista anche una “risposta data a coloro che avevano proibito il mio precedente film”. The attack (2012) è stato vietato in Libano e in tutti i paesi arabi (eccetto che in Marocco) dal movimento della sinistra del mondo arabo: “Un movimento  che è sostenuto da Ken Loach, Brian Eno e tanti altri artisti, ma che è un gruppo contro Israele – prosegue Ziad- Oggi sono diventato contro la sinistra per la guerra e gli attacchi che hanno lanciato contro di me. Quelli della sinistra, intendo coloro che si ergono a difesa dei diritti dei palestinesi,  sono diventati fascisti nel loro modo di esprimersi “.

Di ritorno a Beirut dalla Mostra di Venezia, dove aveva presentato L’insulto, è stato fermato dalle autorità libanesi con l’accusa di “collaborazionismo con il nemico israeliano”: “Volevano fermare l’uscita del film in Libano, ma non l’hanno potuto fare perché non avevo violato alcuna norma di legge, quindi mi hanno arrestato andando a riprendere un vecchio dossier”. Ma cosa pensa della questione palestinese? “E’ una causa che tutti condividiamo e sulla quale gli animi si accendono perché risveglia in noi tante passioni. Siamo tutti d’accordo sul fatto che bisogna porre fine all’occupazione”.

“Ho vissuto metà della mia vita in Libano e metà tra gli Stati Uniti e la Francia, faccio il giocoliere tra queste due culture e saltello continuamente dall’una all’altra. Non so se appartengo all’Oriente o all’Occidente e questa sensazione mi accompagna fin dall’infanzia: mi sono sempre sentito fuori posto da qualsiasi cultura. Ho sempre visto il Ramadan come qualcosa di esterno , una celebrazione che non mi appartiene così come il giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti”, dice il regista che poi conclude: “Il Medio Oriente è ricco di materiale perché è ricco di conflitti a cui attingere e il cinema è scritto e basato su questi”.