“Siamo incapaci di fare lezioni dalla cattedra”, avvisa subito Vittorio Taviani, il più grande dei fratelli, con quella schiettezza tipicamente toscana che gli è propria. “Possiamo scambiare due chiacchiere, al limite…”. Ed è l'inizio di un'ora e mezza d'appassionanti e nostalgici aneddoti legati alla loro carriera cinematografica.
“All'inizio - racconta Paolo - noi facevamo documentari. E neppure belli, ad essere sinceri. Capimmo che volevamo fare cinema quando ne comprendemmo la potenza. Eravamo in Sicilia per intervistare la madre di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso che poi sarà interpretato da Gian Maria Volontè nel nostro primo film Un uomo da bruciare (1962). La madre si trasformò in una moderna Ecuba e mise in scena tutto il suo dolore per l'occhio della nostra Arriflex. Una donnina analfabeta, nel cuore della Sicilia, aveva capito il potere del cinema”.
Da quel film ne sono passati di anni, ma i problemi produttivi sono rimasti quasi gli stessi: “Nonostante la nostra storia e i premi vinti siamo in difficoltà a trovare i fondi per il nostro nuovo lavoro”, ammette Vittorio con rammarico, per poi accendersi di colpo: “Ma alla fine lo faremo! Sono convinto che l'uomo se lotta riesce a vincere! Il malo caso può intervenire e allora si conosce il silenzio dell'orrore. Ma incide per l'1%. Così come incide per l'1% anche il caso positivo. Quindi ai giovani dico di non scoraggiarsi mai!”.
Progetto Rebibbia, nuova avventura cinematografica low budget dei fratelli toscani, sarà un documentario sull'allestimento del Giulio Cesare di Shakespeare interpretato da soli detenuti del carcere romano.
Coppie di fratelli/registi nel cinema sono frequenti (Lumière, Dardenne, Coen, solo per citare i più noti). In tanti anni di collaborazione fraterna non si sono mai verificati screzi? “E' evidente che il conflitto c'è - risponde Vittorio -: esiste un conflitto interiore anche con se stessi, figuriamoci con un altro individuo. Ma abbiamo sempre rispettato le reciproche idee. E Paolo aggiunge: “Ci veniva più facile litigare giocando a pallavolo o a tennis. Dandoci del baro l'un con l'altro rischiavamo lo scontro fisico e forse quello era un modo per alleggerire le tensioni lavorative”. Un momento commovente dell'incontro è stato quello in cui i fratelli Taviani hanno ricordato Rossellini, colui che li premiò a Cannes nel 1977 per Padre Padrone. “Ci invitò nella sua camera d'albergo, ma non parlammo di cinema. Ci parlò degli animali e delle loro sofferenze, perché nel nostro film ve n'erano. Aveva le mani malate come quelle viste in precedenza a nostro padre. La cosa ci colpì molto”, racconta Paolo. E Vittorio aggiunge: “Gli chiedemmo come aveva superato le critiche per Germania anno zero (1948), un film per noi stupendo ed ingiustamente criticato. Ci rispose che non le aveva affatto superate. La ferita era ancora aperta e sanguinava. Morì solo venti giorni dopo averci consegnato la palma. Per noi fu un colpo durissimo”.