Applausi e commozione all'Auditorium per Robert Redford e Tom Cruise. I due divi si fanno perdonare quasi un'ora di ritardo, con una conferenza fiume sull'America d'oggi, il bilancio della guerra in Iraq e le prospettive di un paese che deve riconquistare la fiducia dei giovani. Tutti temi che alla Festa di Roma tornano prepotenti con Leoni per agnelli, toccante spaccato umano sul post-11 settembre, che riporta Redford alla regia a 7 anni dalla Leggenda di Bagger Vance. Assente Meryl Streep, ad accompagnare fuori concorso il film, nei cinema da Natale, ci sono anche Michael Pena e l'esordiente Andrew Garfield. I riflettori sono però tutti puntati sulla coppia di star: completo nero e pettinatura da bravo ragazzo, Tom Cruise rompe il ghiaccio, scusandosi per il ritardo sulla tabella di marcia. Loquace e disponibilissimo fin dalle prime battute, Redford sgombra subito il campo dai possibili equivoci: "Non è affatto un film sull'Iraq. Il tema che tratta è molto più profondo e riguarda effetti e conseguenze, che gli ultimi anni hanno prodotto sul nostro paese, in riferimento soprattutto ai media e la politica, ma anche ai giovani e all'istruzione".
Specchio delle sue parole è la struttura che al film regala Matthew Carnahan. Alle spalle anche del prossimo The Kingdom, lo sceneggiatore adotta infatti la prospettiva tre diverse vicende, che finiscono per convergere nell'arco di una giornata molto particolare. Fronti su cui si snoda l'intreccio sono un Ufficio del Congresso Americano, dove un rampante senatore repubblicano coordina una pionieristica missione per porre fine alla guerra in Iraq, un angolo della West Coast dove un professore idealista tenta di spronare e ridestare la coscienza di un suo studente e remote alture afgane, che due suoi ex allievi devono conquistare come avamposto militare per il controllo militare del territorio. "Quando ho letto la sceneggiatura - racconta Redford - l'ho subito trovata molto interessante. E' difficile, oggi, imbattersi in storie così profonde e intelligenti. A fare la parte del leone sono ormai l'azione e lo spettacolo, ma in pochi hanno il coraggio di adottare una prospettiva in grado di sollevare interrogativi così profondi".
Alfiere dell'America impegnata fin dagli anni '70, Redford non riconosce però al suo film il compito di incidere sulla politica: "Per quanto sia un tema che mi ha sempre accompagnato, non ho mai pensato al cinema come strumento di propaganda. La questione è molto più semplice. Da cittadino e da artista, quando il tuo paese è coinvolto in eventi epocali come l'11 settembre e la guerra in Medio Oriente, non ti restano che due alternative: ignorarli e girare la testa dall'altra parte, oppure interessartene. E questo è quello che ho cercato di fare: non raccontando il perché e il per come di questa guerra, in quanto è ormai sotto gli occhi di tutti, quanto partendo dall'amore che provo per gli Stati Uniti. Mi ritengo fortunato ad essere nato in un Paese in grado di offrire tante opportunità. Proprio il fatto che improvvisamente vengano negate e sprecate, mi spinge quindi a indignarmi e cercare di dare il mio contributo".
Gli Stati Uniti di cui parla Redford sono un paese polarizzato: "Una realtà troppo complessa da inquadrare in bianco e nero e ricca invece di grigi e di sfimature. Nella stampa come nella politica, ci sono ancora molte persone valide, che combattono con onestà per portare avanti le loro idee. La situazione in cui ci troviamo oggi è però frutto dello smarrimento generale, prodotto dall'11 settembre. Non dimentichiamo che allora i repubblicani controllavano la Corte Suprema ed entrambi i rami del Congresso: tutto quanto era insomma necessario, per imporre a tutto tondo la loro politica. Ai media, come a tutti i cittadini americani, è stato chiesto allora di mettere da parte ogni critica e stringersi nella difesa del paese. E' così che siamo arrivati ad accantonare le libertà e perdere la fiducia per chi ci governa. Un problema che riguarda soprattutto i giovani: una generazione cinica e disincantata, a cui mi rivolgo con il mio film, per ricordarle che il futuro è nelle sue e non nelle nostre mani".
Piglio e attitidune alla denuncia sono quelle di sempre. Le stesse, che Redford torna a rispolverare dopo Il candidato, Tutti gli uomini del presidente e I tre giorni del Condor. Come lui stesso dice, questa volta si è però trattato di adeguarsi ai tempi che cambiano: "Con l'avvento di Internet e la crescita dei mass media si sono moltiplicati i canali di informazione, ma anche le possibilità di manipolarla". Il risultato, concorda Tom Cruise, è in una drastica e paradossale riduzione della comunicazione: "La guerra non ha mai risolto nulla - dice -. E molte guerre di oggi si sarebbero potute evitare, semplicemente aprendosi maggiormente al dialogo. Il punto del film non è l'Iraq o l'Afghanistan, ma una situazione contemporanea, su cui vogliamo indurre a riflettere. Non so se Leoni per agnelli cambierà qualcosa, ma il risultato ottenuto negli Stati Uniti è già confortante: l'abbiamo presentato in numerose università e ovunque è stato in grado di sollevare importanti dibattiti".
Quello di Cruise è sullo schermo il ruolo più ingrato. Nel senatore repubblicano che manipola la giornalista televisiva Meryl Streep e manda le reclute al macello, per averla finalmente vinta in Iraq, il divo di Rain Man e Minority Report non si riconosce affatto: "Ho cercato di regalare al personaggio una dimensione realistica, giocando soprattutto sulla sua complessità. Il fatto che fosse poi così distante da me è stata un'ulteriore sfida": Principale motivo che l'ha portato al film, sono però stati i nomi coinvolti: "Robert Redford è per me sempre stato un modello. Uno che è stato in grado di opporsi agli studios, per imporsi e fare i film che voleva. Quando ho sentito il suo nome, non ci ho pensato un attimo. E' un grandissimo regista, che riesce a comunicare temi importanti, con grande intelligenza e passione".