Un dramma rigororissimo sullo spionaggio della Stasi negli anni bui della Germania Est, per denunciare la sindrome del controllo di ogni regime presente e passato. E' lo straordinario caso de Le vite degli altri: opera prima realizzata col niente, incoronata con tre EFA e lanciata dal recente Oscar per il Miglior Film Straniero a un immediato remake con l'illustre firma di Sydney Pollack. "Quello del potere che sconfina nella sfera privata è un tema universale e senza tempo - dice l'esordiente tedesco Florian von Henckel -. La sua rilettura si riferirà al Patriot Act e ne sono orgoglioso: tutta la cultura è remake. Pensate a quanto sarebbe oggi più povera se non avessimo mai riletto Shakespeare". A Roma per presentare il film, nelle nostre sale con almeno 100 copie dal prossimo 6 aprile, il 33enne regista tedesco stupisce poi per consapevolezza e determinazione con cui ha condotto la sua battaglia produttiva: "In Germania nessuno credeva al film. Volevano che edulcorassi la trama e mi associassi a una grande distribuzione, ma è un compromesso a cui non sono voluto scendere". La storia è effettivamente delle più indigeste: uno spaccato sulle violenze e il controllo della polizia segreta negli ultimi anni della DDR, attraverso la vicenda di un drammaturgo, della compagna che lo denuncia alle autorità e dell'ufficiale incaricato di spiarne ogni mossa.
Neanche i volti noti dei protagonisti Martina Gedeck, Sebastian Koch e Ulrich Muhe hanno piegato le resistenze degli investitori tedeschi. E' anzi proprio agli attori che si deve la realizzazione del film: "Il budget è stato pari a un quarto di un normale film tedesco e questo soltanto grazie a loro. Hanno partecipato con passione e determinazione, percependo il 20% del normale compenso". Particolare è poi il caso di Muhe, di recente visto in Black Book di Paul Verhoeven, che nel ruolo ha ritrovato una dolorosa analogia con la sua storia personale: "Anche lui, come il protagonista, è stato denunciato dalla compagna alla Stasi. All'inizio non ne ero al corrente, ma mi è bastato scambiarci due battute, per capire che la sua conoscenza di quella realtà era fuori dell'ordinario. Lo conoscevo come bravissimo attore di teatro della Germania Est, ma non sapevo per esempio che diversi membri della sua compagnia, vi si erano addirittura infiltrati, appositamente per tenerlo sotto controllo. Emblematica la sua risposta a chi gli chiede come ha fatto a calarsi nel ruolo: 'Mi sono ricordato', dice". Un dramma personale, in parte condiviso dallo stesso von Henckel: "Ai tempi in cui è ambientato il film ero a Berlino Ovest, ma tornavamo spesso all'Est perché è da lì che vengono i miei genitori. Erano entrambi sulle liste della Stasi. Non soltanto venivano spesso perquisiti, ma ricordo che una volta mia madre è stata addirittura trascinata fuori e costretta a spogliarsi, mentre io e mio fratello aspettavamo in macchina".
Atmosfere e cultura del sospetto respirate da piccolo non sono però state d'ispirazione: "I ricordi d'infanzia mi hanno aiutato, ma la mia storia personale non sarebbe interessata a nessuno. Il mio scopo non era neanche fare un film contro la Germania Est, quanto piuttosto raccontare la realtà di quegli anni". All'ambivalente reazione del pubblico tedesco, diviso tra chi ha considerato impietosa e chi troppo morbida la sua ricostruzione, von Henckel è arrivato dopo oltre un anno e mezzo di ricerche: "Nessuno degli ufficiali della Stasi che ho interpellato - racconta - ha mostrato il minimo rimorso. Mi ha anzi colpito, il fatto che uno di loro si sia giustificato, dicendo che era la guerra fredda e in guerra valgono altre regole". Alla strenua difesa del regime da parte dei suoi complici e protagonisti, fa peraltro riscontro anche la difficoltà delle sue stesse vittime a prenderne compiutamente coscienza: "Dopo il crollo del Muro - spiega von Henckel - a tutti i tedeschi dell'Est è stata offerta la possibilità di accedere ai fascicoli stilati su di loro dalla polizia segreta. Un diritto di cui però finora ha usufruito appena il 10% della popolazione". Se questo atteggiamento, indice della storica difficoltà a rapportarsi con traumi e macchie del passato, sta lentamente cambiando, sarebbe secondo il regista anche merito del cinema: "Molti film tedeschi di oggi, sembra stiano facendo propri gli insegnamenti della psicanalisi: non è possibile guardare al futuro, se non si è prima fatta chiarezza sul nostro passato. Un atteggiamento di cui la Germania dovrebbe andar fiera".