“Il film è liberamente tratto dal romanzo di Matteo Righetto. Rispetto al libro, abbiamo cercato di avvicinare i nostri protagonisti a un’epoca che stava per finire: quella del Dopoguerra. L’orso si deve rapportare con una natura che non è più così selvaggia, e la figura del padre ha un modo di pensare che ormai è quasi superato”. Così il regista Marco Segato presenta il suo primo lungometraggio di finzione La pelle dell’orso, nelle sale italiane dal 3 novembre. Prodotto da Jolefilm e Rai Cinema, sarà distribuito da Parthénos in 30 copie.

La storia è ambientata in un paesino delle Dolomiti durante gli anni ’50. Domenico è un ragazzino sveglio e introverso, che ha un pessimo rapporto col padre Pietro, un reduce di guerra consumato dal vino e dalla solitudine. Un giorno, un orso venuto dalle montagne scuote la piccola comunità, e un terrore superstizioso si impadronisce dei paesani. Pietro cerca la redenzione nel pericolo, e lancia una sfida: ucciderà la bestia in cambio di soldi. È l‘inizio di un’avventura che lo porterà a confrontarsi con se stesso.

Marco Paolini, che interpreta Pietro, sostiene che il suo personaggio “non è un genitore modello. Non è una figura educativa e non riesce a colmare il vuoto lasciato dalla madre, morta alcuni anni prima”. Poi interviene il regista: “La pelle dell’orso è un film di genere, che intrattiene il pubblico con un cinema di qualità. Siamo partiti da una passione comune per il western, e abbiamo deciso di ambientare la storia sulle montagne. Non volevamo raccontare l’Italia di oggi, con la crisi e la disoccupazione. L’obiettivo era quello di spingersi verso una narrazione più originale, che può contare su qualche meccanismo ben rodato, come quello del rapporto padre figlio”.

Lucia Mascino veste i panni di Sara, una donna a tratti misteriosa. “Il mio sogno è quello di tendere sempre di più a figure che si avvicinano a Clint Eastwood. Sara è una specie di enzima che, da quando entra in scena, velocizza il processo di riappacificazione tra i due protagonisti. Porta il calore nella solitudine di Pietro, e spinge Domenico a parlare col padre”. L’uomo – orso è Marco Paolini, che di caccia se ne intende. “Mario Rigoni Stern insegnava che bisogna avere pochi colpi in canna, perché non c’è abbastanza tempo per reagire. Nella scena delle pallottole, ho insistito perché fossero poche: tre, al massimo quattro. Non è per essere sportivi, ma perché le possibilità di colpire il bersaglio non sono molte”. Poi passa al film: “Il nostro è uno sguardo su un mondo chiuso, in cui tutti si conoscono, ma agli estranei non è concesso di sapere molto. Per questo non abbiamo approfondito alcuni aspetti che riguardano il passato di Pietro e la guerra. Il ragazzo, crescendo, vorrebbe conoscere la verità sulla morte della madre, ma è ancora troppo giovane”.

Infine non ci si può dimenticare dell’orso, e Paolini racconta la battaglia finale: “Abbiamo utilizzato due animali veri e non è stato facile. La bestia era alta due metri e mezzo, e a dividerci c’era solo un filo di metallo. Il domatore era al mio fianco ed è stato bravissimo. Per me è stata un’esperienza indimenticabile”.