Un esordio sorprendente, quello di Raúl Arévalo. Trentasette anni, madrileno. Vivace, riflessivo. E di grande simpatia. La sorpresa più grande della sua vita: aver vinto quattro Premi Goya – miglior film, miglior regista esordiente, miglior sceneggiatura originale e quello per l’attore non protagonista, Manolo Solo – con Tarde para la ira, in italiano La vendetta di un uomo tranquillo (dal 30 marzo in sala con BIM) un titolo che per lui funziona bene. Anche una grande sorpresa lo scorso anno alla Mostra di Venezia, nella sezione Orizzonti: otto minuti di applausi al termine della proiezione e premio a Ruth Díaz come miglior attrice. Confessa Raúl: «Nemmeno nel migliore dei miei sogni avrei potuto immaginare quanto è accaduto al film. Io sono un attore prima di tutto, e per fortuna lavoro molto. Questo mi ha messo in contatto con tanti registi. Cosa utile. Da sempre ho voluto girare un film, riuscirne a finirne uno era già il massimo della soddisfazione. Vincere poi quattro Goya e ricevere un’accoglienza così entusiastica in Spagna è stato un dono inimmaginabile».

Nel suo film la rabbia e il desiderio di vendetta, prima di sfociare in azioni sanguinose, sono espressi dallo sguardo dei suoi personaggi, sono racchiusi nei loro occhi, sui quali spesso lei si sofferma.

«Si. Per raccontare questa storia erano necessari non soltanto bravissimi attori e con grande esperienza, che avessero particolari tratti fisici e questa età, ma gente che avesse già vissuto la vita. I loro occhi dovevano esprimerlo».

La vendetta: spesso è un tema che il cinema enfatizza. Lei invece ha fatto esattamente il contrario, il suo personaggio è terribilmente naturale e semplice nel compiere la sua, che è efferata. Alla fine si accomiata pure con un sorriso.

«La mia ambizione è stata quella di fare un film il più realista possibile. Ci sono centinaia di film sulla vendetta, ma non mi interessava trattarla da un punto di vista estetico, affrontarla alla maniera di Tarantino. Volevo un film crudo, quasi scarnificato, diretto, essenziale, come fanno Garrone e i fratelli Dardenne. Però sono conscio che è difficile rimanere nel pieno realismo dinanzi a un personaggio che fa cose orribili, quindi la sfida era anche quella di creare un rapporto con lui che fosse plausibile e vero».

Il suo film insegue proprio una essenzialità anche visiva: la violenza inizia in modo esplicito e terribile. L’ultimo omicidio, forse il più terribile, nemmeno si vede.

«Proprio così. Abbiamo iniziato con una scena molto potente per non annoiare lo spettatore e aiutarlo a districarsi nella storia. Ma volevamo farlo anche entrare attraverso la realtà quotidiana per poi dare una svolta e arrivare diritti al punto della vendetta. Infatti, si passa da una violenza estremamente esplicita ad una che via via lo è meno. Perché a mano a mano che cresce il vincolo dello spettatore con i personaggi non serve più far vedere le cose, basta percepirle».

Le è mai nata la tentazione di recitare nel suo film ritagliandosi il ruolo del protagonista?

«No, mai. Quando dirigo penso a dirigere e basta. E poi non avevo l’età giusta per interpretare José».

Così ha scelto Antonio de la Torre per farlo.

«È un grande amico, che rende le cose più facili, nel bene e nel male, perché quando ero agitato e teso sul set sfogavo la mia rabbia su di lui. Il fatto di poter disporre di così pochi gesti e di essere sicuro che la sua fosse una recitazione estremamente controllata è stato fondamentale per raccontare questa storia. Ho avuto la fortuna di scrivere la sceneggiatura con David Pulido che è anche psicologo. Gli ho potuto fare moltissime domande sul personaggio, ma ho scoperto che la realtà non avrebbe funzionato, perché nella vita reale le persone con questo desiderio di vendetta sarebbero state degli assassini compulsivi, affetti da tic e nervosismi incontrollabili, lo spettatore lo avrebbe visto così come un pazzo. A me questo non interessava. Ho optato per questi volti ieratici e queste espressioni che Antonio incarna benissimo».

Ambienti vissuti. Numerosi racconti ascoltati nel bar di suo padre. Un film che nasce anche dai suoi ricordi.

«Uno deve raccontare di ciò che sa, di ciò che conosce. Non ho vissuto un’esperienza come quella di José e mi auguro di non viverla mai. Ma ho voluto portarla comunque sul mio terreno, ambientando questo film nei quartieri dove ho vissuto, tra la gente con cui sono cresciuto, nell’atmosfera e nel contesto che conosco bene. Non perché siamo in Italia, ma ho preso esempio da Garrone e Gomorra dove strada, vita, finzione coabitano in un film che è stato il mio modello, un aspetto che mi interessa perché sono sostenitore del cinema che abbia una identità, che parli di un paese e dei posti che si conoscono meglio. La storia di José non mi era nota, ma l’ho voluta portare nel mondo che conoscevo molto bene».

Nessuno nella propria vita può dirsi esente dall’aver provato rabbia, magari anche il desiderio di vendicarsi. Lei ha un antidoto da suggerire?

«Ovviamente la violenza fa parte di tutti noi e dell’essere umano. Per questo se ne fanno tanti di film sulla violenza e per questo funzionano bene con gli spettatori, perché in qualche modo servono a sfogarla, a esorcizzarla. L’antidoto? Quello di essere in pace con sé stessi. E se anche può sembrare un po’ banale, l’amore. Un uomo che ha meditato una vendetta come quella di José è un uomo che ha deciso di restare chiuso nel suo mondo. Se avesse incontrato un’altra donna, se si fosse affidato agli amici o avesse avuto una famiglia di riferimento, magari avrebbe sempre coltivato la fantasia della vendetta, ma non l’avrebbe mai messa in atto».

Grande vitalità del cinema spagnolo.

«Un cambio generazionale c’è, ma la visione del cinema spagnolo è ingannevole. Se sei al di fuori del cinema commerciale, rimane molto difficile mettere in piedi una produzione. Mi è costato molto realizzare questo film. Ho aspettato otto anni, durante i quali l’ho scritto, e tre anni e mezzo ci sono voluti poi per trovare i fondi necessari a realizzarlo. Non ho avuto alcun fondo pubblico sul quale contare».