Pergine, Val dei Mocheni, Trentino. Dani è un ragazzo africano del Togo (Jean Christophe Folly), in Italia per fuggire dalla guerra in Libia. Partito con la moglie all'ottavo mese di gravidanza, poi deceduta durante il parto, si ritrova nel nostro paese ospite di un centro d'accoglienza e con la figlioletta a carico. Dani non riesce nemmeno a guardare in faccia la bambina, le ricorda come è morta la sua compagna. Trova lavora nel laboratorio di Pietro, un vecchio falegname apicoltore che vive in un maso di montagna insieme alla nuora Elisa (Anita Caprioli) e il nipote di undici anni, Michele (Matteo Marchel). Michele è arrabbiato, suo padre è morto troppo presto in un incidente in montagna. Tra Dani e Michele s'instaura un rapporto profondo.
E' La prima neve di Andrea Segre (a Venezia nella sezione orizzonti), al suo secondo lavoro di finzione dopo Io sono Li. Il tema è ancora una volta l'immigrazione, ma a differenza del frusto dibattito pubblico, è affrontato senza nessuna intenzione conflittuale o polemica: "A differenza di Io sono Li - dice Segre - io e Marco Pettenello abbiamo volutamente scritto la sceneggiatura senza far entrare il problema dell'immigrazione e del rapporto con lo straniero: nessuno si pone conflittualmente rispetto all'altro. Non è la storia di un immigrato, ma quella di un padre che impara a fare il padre grazie a un figlio che non è suo figlio". E aggiunge: "La prima neve nasce dalla voglia di parlare della perdita del padre, dal bisogno di toccare una storia personale e più in generale dal desiderio di raccontare il lutto e la sua elaborazione. Volevo affrontare questo dolore attraverso la storia di un incontro. Un incontro abbastanza improbabile tra persone che sembrerebbero agli antipodi e che invece scoprono di avere pezzi di esperienze complementari". Un incontro utopico nell'Italia di oggi, dove basta un ministro di colore per risvegliare le peggiori pulsioni: " Il nostro in realtà è un paese che sperimenta molti di questi incontri, ma non si ha il coraggio di portarli fuori perché è più facile raccontare la paura. C'è questa schizofrenia nel rapporto con lo straniero: lo si respinge in generale ma lo si difende se lavora per noi."
Il regista, che compie oggi 37 anni, non ha dubbi sul modo in cui sarà risolta questa schizofrenia: "E' già avvenuto - dice -. Quelli che volevano che vincesse la paura hanno perso. Per 15 anni ci hanno detto che li avrebbero fermati, che gli avrebbero impedito di arrivare da noi, e la realtà ci ha dimostrato che non solo sono arrivati ma che non erano poi così pericolosi". Da Docente di Sociologia della Comunicazione (a Bologna), sciorina dati: "Abbiamo speso miliardi in politiche respingenti, di espulsione, di sicurezza, che non sono serviti ad impedire il fenomeno. Miliardi di euro che invece sono stati utilizzati per costruire migliaia di Cie (centri d'identificazione ed espulsione) e consenso politico. La verità è che vengono espulsi meno di 30 mila immigrati clandestini ogni anno. Praticamente niente".
Compito del cinema, secondo Segre, è quello di "proporre una narrazione diversa. Nessuno nega che la faccenda sia complessa, ma se si raccontano agli italiani le esperienze d'incontro la complessità diventa momento di elaborazione e opportunità di crescita". E' una mission che lo stesso Segre si è dato: "Continuerò a muovermi in questa direzione, raccontando storie di e con immigrati. Ma con un registro diverso". Quale? "Mi piacerebbe recuperare un'altra parte fondamentale della storia del cinema italiano: quello politico".