Si ripete da tempo che la potenza mostrativa delle immagini in movimento è oggi magnificata dalla loro diffusione e onnipresenza, dall’altrettanto potente e massiva disponibilità, dai “numeri che fanno” (in termini di visualizzazioni, di utenti intercettati, condivisioni), dalla duttilità e varietà di usi e finalità. A venir meno, in tutto questo, è la loro impotenza: l’impossibilità a ridurre a immagine il tutto di qualcosa, a comprendere entro il visibile quel che non nel solo visibile può darsi. È possibile che privare l’immagine delle sue “debolezze” consustanziali, a vantaggio dell’affermazione della sua forza, privarla dei suoi limiti intrinseci, significhi per contro indebolire e porre limiti a quanto nel mondo non è solo visivo, o è invisibile. A quel tanto di ancora misterioso, di non conquistato all’occhio, insomma, che vi insiste.

Lav Diaz

Ci sono però dei cineasti che lavorano in modo controtendenziale, per i quali misurarsi con un qualche mistero del mondo, nei propri film, è lavorare su impotenze dell’immagine. Come se proprio da un lavoro sui suoi limiti intrinseci sia dato scoprirne possibilità altre. Lo fa, ad esempio, Memoria, di Apichatpong Weerasethakul, presentato a Cannes 74 e distribuito ora nelle sale italiane, quasi in chiusura di stagione, benché appartenga a quella precedente, come anche Il buco di Michelangelo Frammartino e History of Ha, di Lav Diaz. Film che in modi diversi lavorano sul limite dell’immagine e su quel tanto di ancora misterioso nel mondo.

Weerasethakul lo fa mettendo l’accento su un suono – che ossessiona la protagonista Jessica (T. Swinton), una botanica inglese in Colombia per assistere la sorella malata – ossia qualcosa che per statuto è invisibile, e che non può ridursi a immagine, o che l’immagine è impotente a dire. Salvo indirettamente, nella rappresentazione grafica di forma d’onda o spettro delle frequenze, come fa un tecnico del suono, Hernàn, che ricostruisce artificialmente in studio il rumore che ossessiona la protagonista. Noi spettatori, però lo sentiamo con lei, come se potessimo essere messi a parte “oggettivamente” di ciò che Jessica sente “soggettivamente”, o potessimo quindi partecipare ancora indirettamente di un altro invisibile: la sua interiorità. Che, a rigore, è un fuoricampo. E proprio sul fuoricampo lavora Frammartino, su un tanto di misterioso interno al mondo e di non facile conquista per l’occhio. È l’Abisso del Bifurto, grotta profonda poco meno di 700 metri, sul massiccio del Pollino. Il buco è ispirato all’impresa – non “inscenata”, ma di fatto ricompiuta, nuovamente realizzata nel film – degli speleologi che per primi, nel 1961, esplorarono quel buio: ciò che non ha immagine, ciò che non ha forma. Filmarlo, immergervisi, significa mettere in discussione l’inquadratura come luogo del visibile. Per chi vi si cala e per noi, non v’è ambiente che sia “certo”, definito nelle sue coordinate (gli esploratori, cercando di saggiarne la profondità, vi lanciano pagine di una rivista alle quali hanno dato fuoco), tanto è buio e inaccesso; tanto sembra continuamente cambiare, ridisegnare volumi e rientranze per effetto delle lampade sui caschi degli speleologi che muovendosi ne rivelano (ossia ne svelano e velano di nuovo, fanno transitare continuamente dall’oscurità alla luce) porzioni differenti. La leggibilità delle immagini, così, non è mai pienamente conquistata all’occhio, e pertanto lo intriga, lo invita a scoprire quanto v’è in esse di invisibile (come in altri lavori di Frammartino: in Alberi, i rumiti mimetizzati, interamente ricoperti di fogliame, erano fusi e confusi col bosco, indecidibilmente umani o vegetali), a “scavarle”.

Il buco di Michelangelo Frammartino

Lav Diaz dilata, invece, nel tempo l’esposizione allo sguardo di un mondo che sembrerebbe in sé leggibile, se non fosse che le inquadrature di History of Ha, benché statiche, tenute a lungo, si rivelano tanto internamente mutevoli da non potersi abbracciare in un colpo d’occhio. Tali, quindi, da rimettere in discussione i significati che saremmo tentati di attribuire loro, costringendo lo sguardo a ridefinire i propri fuochi e centri d’attenzione. Complice, anche, il bianco e nero così tanto caratteristico del lavoro del regista filippino, e che è una vera e propria sottrazione del colore (infatti, ottenuto spesso in post-produzione). È un limite, appunto, posto all’immagine, un depotenziamento del suo potere mimetico di rappresentazione del mondo e della sua acquisizione a visione (affine in questo senso al lavoro sul suono di Weerasethakul, al buio di Frammartino). Ma mancando di punti di riferimento tracciati dal colore – che del resto è un effetto, un prodotto dell’incontro tra la luce, le cose, l’occhio – il mondo nel cinema di Lav Diaz può darsi a vedere come “nudo”, nella pura presenza delle cose a prescindere dagli appigli che possano orientarne la visione. Temporalità e desaturazione, allora, invitano l’occhio ad andare più addentro alle immagini, come non avessero ancora imparato a vedere, come non potesse dare per acquisito ciò che ha dinanzi.

Memoria - Apichatpong Weerasethakul - cr. ©Kick the Machine Films, Burning, Anna Sanders Films, Match Factory Productions, ZDF-Arte and Piano, 2021

Parlando ancora di un orientamento della visione non dato a priori, ma da costruirsi, come processo, nel tempo: gli speleologi de Il buco devono di fatto man mano inventare dei modi per intuire profondità e volumi della caverna, mancando loro la possibilità di abbracciare con l’occhio profilo e misura. E non molto diversamente, è solo per gradi, e appunto processualmente che la protagonista di Memoria si scopre in grado di sentire echi di vite e tempi precedenti che continuano a insistere nel mondo (come già il suono che l’ossessiona). Sotterranei, inframondani, nascosti (proprio come lo spazio del film di Frammartino), simili alle ossa umane quasi fossilizzate, rinvenute nello scavo di una galleria, che degli archeologi mostrano a Jessica. La capacità di Jessica di stare in ascolto di altri tempi e vite, della memoria che ne permane, per quanto non visibile, nel mondo, matura, insomma nel tempo. E in un certo senso il film “funziona”, come lei che intercetta suoni, mettendo in successione scene ed eventi disparati: l’incontro col tecnico del suono del quale, poi, misteriosamente, si perdono le tracce, la veglia sulla sorella, dorme lunghi sonni (come già i soldati reduci di Cemetery of Splendour), l’incontro con gli archeologi o quello con un altro (o è lo stesso tecnico del suono, benché diverso nell’aspetto?) Hernàn nella foresta colombiana. Incontro che rivela la protagonista a se stessa nel suo essere “antenna” – così la definisce l’uomo – in grado di sentire altri suoni di altre vite.

Memoria - cr. ©Kick the Machine Films, Burning, Anna Sanders Films, Match Factory Productions, ZDF-Arte and Piano, 2021
Memoria - cr. ©Kick the Machine Films, Burning, Anna Sanders Films, Match Factory Productions, ZDF-Arte and Piano, 2021
Memoria - cr. ©Kick the Machine Films, Burning, Anna Sanders Films, Match Factory Productions, ZDF-Arte and Piano, 2021
Memoria - cr. ©Kick the Machine Films, Burning, Anna Sanders Films, Match Factory Productions, ZDF-Arte and Piano, 2021

Episodi dai legami ambigui, piuttosto ellittici, tra i quali si possono intuire possibili connessioni e può intuirsi il senso del loro susseguirsi, ma non vedersi. Allo stesso modo che dei suoni che Jessica sente non è dato vedere la fonte (di nuovo: un limite della visione), lungi dallo sciogliersi, dal chiarirsi una volta per tutte, quel tanto di misterioso del mondo che il film accosta, resta tale. Non ne viene cioè riversata in immagini una chiarificazione, non viene sciolto (si perderebbe come mistero in quanto tale, altrimenti), e il senso non viene disvelato, ma lasciato ad intuire, non imposto, come fosse pura possibilità, riserva attingibile e non risolta/ridotta nelle immagini. Perché non necessariamente un mistero si deve o può sciogliersi. Sicuramente, però, si può esplorare.

Lo fanno gli speleologi nel Bifurto. Il loro viaggio (e quello del nostro occhio) attraverso l’invisibile si compie, nel film, anche in un’altra forma negli stessi tempi e spazi: è l’agonia di un pastore. Non diversamente dagli esploratori, anche l’anziano esce progressivamente dal campo visivo del mondo. Quando il profilo della grotta è infine conquistato in chiaro dall’occhio umano, fissato nella mappa pazientemente disegnata da un cartografo della spedizione, intuiamo che il pastore viaggia a propria volta verso un altro invisibile, verso un fuoricampo inaccesso a occhio umano, mistero che insiste nella profondità del mondo, come il buco, e non “oltre”. Scompare alla vita “visibile”, accede forse a un’altra, fa ritorno a un ignoto recesso della terra, che essendo fuoricampo pensiamo invisibile, buio, dove non è forma né figura. Come quello che ha fatto venire alla luce un’immagine (la mappa, i disegni degli speleologi), letteralmente partorita dalla terra, alla quale il pastore è andato sempre più somigliando/tornando: se, per esempio e fra l’altro, la lampada tascabile di un medico, accesa sul suo occhio, diventava la luce che nel buco cala dall’alto, puntata da uno degli speleologi su quelli già arrivati sul fondo. Farsi invisibili come figura (umana), quindi, e diventare terra, acqua, nuvola (coerentemente con tanto pensiero mistico-filosofico calabrese, da Pitagora a Telesio a Campanella, persuaso della magia naturale e intimamente animista, del mondo non-inanimato, come sempre appare il mondo al cinema), ovunque e in nessun luogo presenti.

In modi diversi, al cuore dei tre film è un’idea di riscoperta (Jessica e le memorie “sonore” invisibili), di rigenerazione/ritorno (a un’origine invisibile: Il buco), di rinascita/riscatto, che nel film di Lav Diaz interessa sia il protagonista e, più in generale, il suo paese. History of Ha è un nuovo canto nell’epos del suo paese, le Filippine, un’interrogazione su un’identità nazionale storicamente accidentata: traumi collettivi, dittature, domini coloniali e conseguente dipendenza sia politica, sia ideologica e culturale da altre potenze. Il film vede un paese in lutto, nel 1957, per la recente scomparsa del presidente Ramon Magsaysay, e prossimo alla dittatura di Marcos. Il paese è tanto bisognoso di figure dirigenziali in cui confidare, da subire il fascino anche di leader palesemente antidemocratici, e di questi fanno il feticcio in grado di incarnare le proprie attese di una vita migliore, mentre altri (governi di altri paesi che ingerenze) fantoccio. Non a caso, al centro del film è Ha, il pupazzo del ventriloquo Hernandez, ex attivista diventato star del vaudeville. Un uomo che dipende dal fantoccio che egli stesso manovra, per quanto ad arte lo finga “indipendente” (e quasi convincendosene lui stesso), spesso al fine di esprimere da una posizione “protetta” o per dissimulare ciò che davvero sente e pensa.

Peregrinando, i due si fanno testimoni di attese e di ingiustizie sociali, che, paradossalmente – e spesso nel cinema di Lav Diaz – hanno luogo in un mondo di per sé pervaso di splendore (Dead in the Land of Encantos, era infatti il titolo del film girato dopo il tifone Reming), nel rigoglio di alberi, nelle foglie tremule, sferzato dal sole come dalla pioggia battente. Quando Hernandez abbandona infine il feticcio nelle acque del mare, seppellendo una maschera e di fatto battezzando se stesso a una vita “propria”, nuova, e soprattutto senza il conforto di quel suo avatar, è difficile non vedere in lui qualcosa del suo stesso paese. Esso stesso ancora di fatto a lavoro per camminare sulle sue gambe, parlare con la propria voce, emanciparsi dalle mitologie delle quali ha puntualmente circonfuse le figure di potere, per farsi davvero comunità autonoma in grado di forgiare le proprie storie, indipendenti dalle altrui.

History of Ha termina quindi con l’immagine non ancora chiara di un paese ancora da farsi (Hernandez, in una comunità, intento a lavori manuali, o a insegnare l’alfabeto tagalog a bambini o adulti analfabeti), che non può ancora vedersi. Il cambiamento, che ancora deve compiersi, può immaginarsi, intuirsi, non vedersi.

Di nuovo, una possibilità che l’immagine può accennare e non in se stessa esaurire. Un cinema che lavora, in modi diversi, su certe limitazioni dell’immagine, funziona come una negazione affermativa. O, volendo, e tenendo conto di una certa matrice spirituale comune ai tre film, come una sorta di teologia negativa. Consapevoli cioè che se mistero e invisibile non possono darsi a vedere, perché siano “detti” occorre affermare il proprio limite nel dirli, e su quegli stessi limiti (buio, fuoricampo, suono come “non visione”, bianco e nero come sottrazione del colore, ecc.) lavorare, riscoprendone le potenzialità espressive autonome anziché concepirli come detrimento. E “valorizzare” quel che comunemente, nella costruzione di un’immagine si respinge (affinché sia manifesto, trasparente, immediatamente leggibile il senso di ciò che veicola), concepito come uno svantaggio, significa fare qualcosa di nuovo delle immagini.

La posta in gioco, nella contemporaneità che elegge a proprio idolo la visibilità, è potersi misurare con un che di misterioso in quanto tale, e il farlo con ciò che il senso comune – che dalle immagini pretende soltanto chiarezza e trasparenza di lettura – chiama impotenza. Ma al meglio del suo potenziale.