"Sono rimasto traumatizzato: ho visto, e la ferita che si apre quando si vede il male così da vicino sarà difficile da rimarginare". Parola di Franco Brogi Taviani, regista del docufilm Forse Dio è malato, nelle sale dal 29 febbraio per l'Istituto Luce che inizialmente lo porterà nelle 6 o 7 città capozona: "Questo è lo spazio che rimane al cinema d'autore - sostiene sarcasticamente l'amministratore delegato Luciano Sovena - in seguito alla grande rinascita del cinema italiano grazie alle varie mogli bellissime, natali in crociera o i film di Moccia". Inizialmente era il libro di Walter Veltroni ("con la recente caduta del governo - racconta il regista - purtroppo il film ci sta rimettendo in termini di visibilità, in nome della par conditio..."), diario di viaggio che lo stesso Brogi Taviani definisce "mai indulgente, visione drammatica di una realtà capace di colpirmi al punto di seguire l'intuizione di Grazia Volpi (produttore del film con Ager 3, ndr), decisa più che mai a farne un film". Poi, attraverso un ulteriore lavoro di ricerca, raccogliendo documentazioni ufficiali e non, l'inizio di un ulteriore cammino, cinematografico: "L'obiettivo di chi vive in Africa - scriveva Veltroni e ricorda Brogi Taviani - non è cercare di essere felici, ma di sopravvivere. Ma è una guerra, e l'Africa può perderla per sempre. Spaventato ma allo stesso modo fortemente motivato, ho deciso di seguire lo stesso percorso raccontato nel libro, ovviamente mutato una volta iniziata l'operazione". La tragedia della guerra, l'Aids, la fame raccontate dalla voce e dal volto di chi, quotidianamente, sembra vivere queste immani tragedie dimenticato dal resto del mondo: "Tutti sanno che l'Africa è un continente in crisi, ma nessuno pare voglia rendersi conto di quanto questa crisi possa coinvolgere il pianeta intero. Dare voce a chi è nato lì, a chi molte volte spera di arrivare ancora vivo a fine giornata mi è sembrato più utile di qualsiasi altra cosa". Mozambico, Senegal, Angola, Uganda, Camerun e Sudafrica: storie di donne sieropositive, di bambini soldato, di bambini accusati di stregoneria, o cercatori di ferro nelle discariche a cielo aperto: "Trovarsi in mezzo a tutta quella immondizia a Maputo - continua il regista - non può non far pensare alla nostra triste attualità, alla Campania, così come incontrare alcuni luoghi, alcune persone, tutto ti ricorda quanto, seppur apparentemente lontani, i loro problemi sono vicinissimi ai nostri". Realtà e filtro della stessa si intersecano, senza soluzione di continuità, unite dal filo conduttore rappresentato dalle musiche ("contrappunto creativo e fantastico di una tragedia ancora senza speranza", dice Brogi Taviani), scritte da Giuliano Taviani e Carmelo Travia, arricchite di vocalità e sonorità nere dal senegalese Badara Seck e cantate dalla giovanissima sudafricana Siya Mazukeni.