“Non credo che la nostalgia sia la ragione che mi spinge a fare film”. Parola di Pawel Pawlikowski, che dopo Ida, miglior film straniero agli Oscar 2015, e in attesa di adattare Limonov da Carrère, riprende la metà del Novecento e il bianco e nero in Cold War, in Concorso al 71° Festival di Cannes, dove potrebbe trovare riconoscimento importante in palmares e, sin d’ora, applausi e recensioni lusinghiere.

Dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’60, dalla Polonia stalinista alla Parigi boheme, dalla Jugoslavia comunista alla Berlino divisa, tallona la storia d’amore tra il pianista Wiktor (Tomasz Kot, bravo) e la cantante e danzatrice Zula (Joanna Kulig): un romanticismo senza via d’uscita, agrodolce e nostalgico.

Un amore che trova nel comunismo, meglio, nella vita sotto il comunismo un terreno drammaturgicamente fertile, perché esistenzialmente difficile: “C’erano lì molti ostacoli, e l’amore sa per definizione come oltrepassarli”, viceversa, “oggi tutti noi siamo così distratti, e l’idea che tu veda qualcuno e il resto del mondo scompaia difficile da sostenere”.

Eppure, sebbene non sia il motore del suo cinema, Pawlikowski confessa di “nutrire un certo tipo di nostalgia: non dello stalinismo, ma della chiarezza, della capacità di rifuggire la confusione”.

In altre parole, conclude il cineasta classe 1957 di Varsavia, “credo si spenda la prima metà della propria vita ad andarsene dal proprio paese, e la seconda a cercare di tronarci. Almeno, per me è così”.