Sette David di Donatello, sette Nastri d’Argento e curatore della fotografia del film premio Oscar La grande bellezza. Luca Bigazzi, il direttore alla fotografia più importante del cinema italiano contemporaneo, ha incontrato il pubblico del Ca’ Foscari Short Film Festival sabato 7 maggio, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua carriera e illustrando il suo metodo di lavoro.

Quello di Bigazzi si è caratterizzato come un percorso al di fuori dall’ordinario sin dall’esordio, avvenuto con Paesaggio con figure, film realizzato insieme all’allora compagno di scuola Silvio Soldini: “Lo abbiamo girato in sei mesi, io non sapevo assolutamente nulla, non avevo mai fatto una scuola di cinema né letto un libro di fotografia”. Tuttavia, ha confessato, questa inesperienza iniziale si è trasformata negli anni in uno dei suoi più grandi punti di forza, perché, in alcuni casi, l’esperienza può paradossalmente rivelarsi un ostacolo: “Io credo che prepararsi eccessivamente sia un errore. La mia principale qualità è che mi dimentico qualsiasi cosa e così facendo non applico mai lo stesso metodo, è come se per ogni film facessi tutto da capo. L’esperienza è un terribile danno, si rischia di ripetere ciò che si è già fatto”.

Dirigere la fotografia di un film, d’altra parte, pone questioni che superano di gran lunga le questioni puramente tecniche: “Il mio è un lavoro sostanzialmente sociologico”, ha spiegato Bigazzi, “per illuminare e inquadrare una realtà è necessario conoscerla, conoscere la sua lingua e i suoi luoghi, motivo per cui non sono mai stato interessato a girare film all’estero: mi è capitato di fare un film con Gianni Amelio in Cina e mi sono trovato in grande difficoltà, non sapevo nulla di come erano illuminate le case dei proletari cinesi”.

Luca Bigazzi al Ca' Foscari Short Film Festival

Altra caratteristica peculiare del “metodo Bigazzi” è la velocità, che lui stesso indica come principale qualità di un direttore della fotografia. “La mia ossessione è essere veloce: più sono lento, pretendendo una presunta artisticità, più rallento e danneggio il film” ha rivelato al pubblico, sottolineando come la celerità sia essenziale anche in rapporto alla luce, che varia inevitabilmente e continuamente durante il giorno.

L’avvento delle nuove tecniche digitali, tuttavia, ha permesso al cinema di operare anche in condizioni di luce “estreme”, persino in pressoché totale assenza di fonti luminose. Commentando un estratto di Ariaferma, uno dei suoi ultimi lavori, Bigazzi ha raccontato come per rendere l’episodio del black out all’interno del carcere non abbia aggiunto nessuna luce, lasciando che gli attori diventassero essi stessi ‘capi elettricisti’, illuminando l’ambiente con delle semplici torce. “Dieci anni fa una scena del genere, con quindici minuti di buio, sarebbe stata impossibile, avrei dovuto inserire moltissime luci fuoricampo, penalizzando la logica del racconto per seguire l’estetica. Probabilmente avrei direttamente rifiutato il film”.

Da anni ormai, il direttore alla fotografia dichiara di preferire di gran lunga il digitale rispetto alla pellicola, per il realismo che ne deriva, per la facilità d’uso, ma soprattutto per la qualità del prodotto finale. “Ho sofferto mostruosamente tutta la vita a fare cose irrealistiche perché non c’erano i mezzi adatti, ora voi giovani avete davanti strumenti di riproduzione della realtà che io potevo solo sognare quando ho iniziato; sfruttateli senza avere il rimpianto del passato”.

Bigazzi ha concluso cogliendo l’occasione per dare un consiglio alle nuove generazioni: “Il conservatorismo e la resistenza all’innovazione sono dannosissimi. Fidatevi del vostro istinto, servitevi dei mezzi che ci sono e sperimentate il più possibile: non buttate la vostra giovinezza, è la cosa più preziosa che avete”.