Da La Rivista del Cinematografo - marzo 2016

Tra il cinema e il terrorismo c'era una volta una distanza di fiction che dava al cinema il vantaggio dell'avventura, l'avventura degli altri, “infelici pochi”: mondi o casi lontani, avventure potenziali, thrilleraggi esotici o storici assorbiti in sale (e vite) ben protette.

Da quando, seduti a un bar della tua città ben protetta, puoi essere ucciso solo perché sei nato (leggi: di diverso monoteismo), ma anche da quando, seduto alla scrivania del tuo ufficio nel grattacielo simbolo dell'Impero d'Occidente, puoi diventare bersaglio dell'uccello di fuoco, beh, le cose sono cambiate. Il tuo posto non è più un posto sicuro. Il cinema non è più un posto sicuro. Dico fisicamente. Possono entrare anche lì.

La metropolitana di Madrid. Un bistrot e una sala da concerto a Parigi. E un cinema a Londra, no? Da quando il simbolismo dell'Occidente, cioè la pinnacolare esibizione dell'incolumità (im)morale nelle cattedrali metropolitane della civiltà della vita (da discutere) può essere colpita dal sacrificio della civiltà della morte e svanire su se stesso, il cinema come rappresentazione cova sulla realtà una condizione di traslazione e minorità del pericolo e del tragico, come un corvo appollaiato sulla spalla dello spettatore, quello che una volta stava tranquillo a beccare popcorn tra le pallottole di 007 e Jack Ryan, le Syriana di Clooney e i labbroni di Angelina Jolie contro il bosniaco cinturato, i cattivi delle varie atomiche sparse, persino lo Zero Dark Thirty sulla cattura del terrorista numero uno. Ma quale cattura? Cammini per strada, e lui è lì, vivo e pronto (straordinaria eccezione, il Film parlato di De Oliveira).

I conflitti di culture e politiche vivevano ai tempi di La battaglia di Algeri e Ogro, di Anni di piombo e Bloody Sunday. Come dice Adonis, si fronteggiano ora due strane religioni blindate, entrambe nel segno del potere e del denaro, la prima gloriosa di rappresentazione, la seconda gloriosa di distruzione. Il terrorismo islamico non vuole il cinema. Dunque c'è un problema di vita, non solo per lo spettatore, ma anche per il cinema. “Non smetteremo mai di combattervi, nelle vostre case, nelle strade” eccetera eccetera, hanno detto gli otto del Bataclan. La mia ipotesi è che il cinema potrebbe non avere più la sostanza finzionale necessaria per raccontare questa nuova condizione. La troverà? La deve cercare. Per parlare di cinema e terrorismo oggi bisogna parlare delle rappresentazioni nella cultura occidentale e nell'Islam. Nell'Islam estremo non ci sono. Islam ed Europa sono in guerra da 1400 anni. Allora, bisogna capire che cosa è in gioco, che cosa è “architettonicamente” in gioco (come succede al cinema con lo spettacolo della catastrofe) a Manhattan piuttosto che all'11esimo di Parigi, come si entra nel vano esistenziale delle nostre città rispetto alla distesa suddita dei luoghi dell'Isis, essendo il senso esteso di Islam “la pace che giunge quando la vita è totalmente sottomessa a Dio”.

Nelle mederse dove la civiltà mussulmana studia e recita il Corano la figura architettonica dominante è l’estensione a incastro orizzontale. Tutto l’Islam è città piatta. Genuflessione architettonica. La calce al posto del vetro. Il cinema che vuol cogliere questo terrorismo forse deve cogliere il terrore di esistere in questa fragilità orizzontale nostra, mutata dopo l'attacco al simbolismo verticale delle torri. La contiguità dell’Islam con la Grecia di Prometeo e con l’esuberanza cristiana è ormai soltanto un’occasione mancata della storia per vanificare l’arbitrarietà del confine Oriente-Occidente nell’origine, nella creazione, come dice ancora Adonis: “Nell’atto della creazione, l’Occidente e l’Oriente non esistono. E’ sempre l’uomo solo che crea. L’Occidente non è che un profilo, come l’Oriente non è che un profilo di una sola umanità”. Riuscire a vivere nel dolore della frattura forse è la chiave della pace. Né sottomissione a Dio, né competizione con Dio. Per il cinema il punto è dove e come mettere la rappresentazione di questa frattura, di questo dolore come chiave di pace.