Continua il sodalizio artistico tra Gabriele Salvatores e Niccolò Ammaniti. Dopo la buona prova al botteghino di Io non ho paura (2002) il regista napoletano e lo scrittore romano puntano nuovamente l'obiettivo sull'infanzia e sulla responsabilità degli adulti in Come Dio comanda - dal 12 dicembre in 250 sale distribuito da 01 -, una storia di emarginati ambientata nella gelida provincia del Friuli, dove un padre disoccupato e filonazista (Filippo Timi) tira su il figlio dodicenne (l'esordiente Alvaro Caleca) a pane e violenza. Un legame a doppia mandata dove gli altri sono a priori esclusi, eccezion fatta per Quattro Formaggi (Elio Germano), uno squinternato che ammazza il tempo costruendo improbabili presepi e visionando filmini porno. "La cosa che mi ha colpito inizialmente del libro di Ammaniti - commenta Salvatores - era la figura di un padre che insegna l'odio con amore. Mi sono concentrato su questo legame, eliminando molti fatti e personaggi presenti nel romanzo. Era talmente ampio che ne potevo ricavare due film distinti. Ho scelto di fare questo". Dopo i tagli in fase di sceneggiatura (curata, insieme a Salvatores e Ammaniti, da Antonio Manzini), l'impianto del film ha assunto una fisionomia più classica: "Shakesperiana. - precisa il regista - Ci sono tre personaggi: un re, padre-padrone; un figlio, principe adolescente; e un "fool", un buffone, un matto. Un bosco intricato dove si perdono e un finale dove ne escono trasformati". Se in Shakesperare non mancano però le figure positive, nel film di Salvatores si fatica a trovarne: "E' vero. Sono tre personaggi , citando De Andrè, che hanno preso "la cattiva strada". Ma ho cercato di affrontarli tenendo presente il concetto di pietas latina. E poi, a differenza di quanto avviene nelle famiglie a modo, il padre negativo interpretato da Timi è se non altro un genitore molto presente". A rischio di strumentalizzazioni: "Il suo orientamento politico nasce dalla confusione e dalla paura degli altri - chiarisce Salvatores -. La sostanza è però un'altra. E' nella capacità di tracciare per il figlio una linea netta, di separare le cose, per lui tutto è bianco o nero. Per un ragazzo che deve crescere questo vale più della moderna formazione fatta di "sè e però": solo così potrà decidere da che parte stare". Manca del tutto la figura materna: "E' una presenza/assenza. Si avverte di più proprio perché non c'é". Salvatores, che rifiuta l'etichetta "film di cronaca" per il suo lavoro ("di cronaca ce n'é troppa nella nostra vita, a scapito della realtà"), insiste poi sulla preparazione, che doveva trasmettere "la fatica, la materialità della creazione artistica. Come dicono gli americani riprendere è to shoot, che significa anche sparare. Fare cinema è come fare la guerra. Ho girato tutto in piano sequenza richiedendo agli attori, al direttore della fotografia (il fedele Italo Petriccione), ai macchinisti e agli scenografi, il massimo sforzo". E gli attori confermano parlando, come fa Filippo Timi, "di impegno fisico notevole". Ma le soddisfazioni sono state altrettanto grandi: "Il ruolo più bello in carriera", si spinge a definirlo Elio Germano, che su "personaggi così complessi e totali" si era imbattuto finora solo in teatro: "Figure che si confrontano con nodi fondamentali dell'esistenza, che toccano l'umano in quanto umano". E sfiorano il divino senza mai toccarlo: "Dio è il grande assente del film - dice Salvatores -. Forse c'è, ma è un padre distante. Personalmente non vedo disegni divini nella vita, ma solo disegni umani. Forse Dio siamo tutti noi".