Anche se non esiste la ricetta per il film perfetto, Jonathan Demme conosce fin troppo bene gli ingredienti per confezionare un prodotto di qualità. Lo spiega durante l'8° edizione del Festival Internazionale del Film di Roma (8/17 novembre) durante la CineChat introduttiva di Fear of Falling, documentario presentato nella Capitale in anteprima mondiale. “Chiunque partecipi ad una pellicola – ammonisce il Premio Oscar – deve sentire la più completa responsabilità del suo ruolo. E non parlo solo del cast ma di tutti i soggetti coinvolti, dall'operatore al regista. Il processo, però, ovviamente deve partire da un tema ben preciso”.
La sua carriera è decollata grazie ad un incontro a dir poco fortunato: “Roger Corman mi ha letteralmente cambiato la vita – confessa il cineasta – avevo già visto tutti i suoi film (erano davvero tanti!) ma l'ho conosciuto solo quando stava girando Il Barone Rosso. Dopo aver letto la sceneggiatura che mi ha commissionato mi ha chiesto di trasferirmi subito da Londra a Los Angeles, un'occasione irrinunciabile che ho colto al volo. Da allora in ogni mio film gli dedico sempre un cameo”.
I più grandi hanno avuto maestri eccellenti, ma non si considerano mai arrivati. “Mi guardo sempre intorno – parole sue – per vedere cosa fanno di nuovo i giovani e quando mi sono imbattuto in Napoleon Dynamite ho subito pensato a quanto fosse delizioso e originale. Mi sono chiesto: “Sono bravo al punto di fare qualcosa del genere? A me sono sempre piaciuti moltissimo i prodotti low budget e anche grazie al Neorealismo italiano e alla Nouvelle Vague francese mi sono innamorato di nuovo del mondo indipendente. Con questo non voglio dire che abbia voltato le spalle ai blockbuster. Aspetto sempre una chiamata che mi offra risorse pazzesche ma sapendo che esse portano più libertà ma anche una maggiore pressione per pareggiare le spese”.
Ecco perché Fear of Falling ha un sapore molto più sofferto e un percorso in salita: “Di sicuro siamo di fronte alla mia esperienza più complessa e gratificante – conclude il regista - anche se inizialmente, visto che lo spettacolo teatrale veniva preparato ormai da 10 anni, ero convinto del contrario. André Gregory, un vero gigante del palcoscenico, mi ha chiesto di andare a vedere Il costruttore Solness di Henrik Ibsen del commediografo Wallace Shawn per capire se potessi filmarlo. Mi ha subito commosso anche se non ho capito subito tutto e ho accettato questo lavoro febbrile con un girato di 27 pagine al giorno. Ecco perché ho portato il teatro al cinema, che come la musica interagisce su grande schermo dandosi a vicenda nuova linfa”.