Al quarto giorno del festival tedesco, ecco la prima buona notizia: l'Italia potrebbe vincere. L'Orso d'Oro o comunque un premio importante. Paolo e Vittorio Taviani, rispettivamente 81 e 83 anni, già a Berlino nel 2007 con La masseria delle allodole, hanno conquistato stampa e pubblico internazionale con il docufilm Cesare deve morire, che il 2 marzo sarà nelle nostre sale distribuito dalla Sacher di Moretti. Una standing ovation ha travolto i due registi alla proiezione ufficiale, accoglienza importante per un progetto difficile: un dramma carcerario ambientato in prigione, tra le mura del Rebibbia di Roma. Solo detenuti, e un regista (Fabio Cavalli) a dirigerli nella rilettura di una delle opere più conosciute e abusate: "Giulio Cesare" di Shakespeare. Poteva essere soprattutto un esperimento sociale, invece per i Taviani la trama scespiriana serve ad annullare ogni distanza tra realtà e finzione. L'espediente drammaturgico, l'idea spiazzante, è il modo in cui viene utilizzato il testo che progressivamente proietta lo spettatore in un'altra storia. Che come l'originale parla di tradimenti e lealtà: "Sono uomini d'onore!", grida con disprezzo Antonio (Antonio Frasca), sul palcoscenico immaginario del carcere, riferendosi agli assassini di Cesare. Non sono termini usati a caso: alcuni di loro sono dentro davvero per reati mafiosi. Un sentimento prevale su tutti: la consapevolezza amara della pena da scontare. L'arte puo' salvare, dice Bruto (bravissimo Salvatore Striano) che è uscito e ora fa l'attore. Meno fortunato, Cassio (Cosimo Rega) confessa davanti alla camera da presa: "Adesso questa cella mi sembra una prigione". Gli stessi che vediamo sullo schermo, con carichi pendenti di vario tipo, tra cui omicidi, hanno una seconda vita, che fa la differenza e si svolge nel teatro Rebibbia, all'interno del carcere. I Taviani li hanno trovati così: sono facce che rimangono impresse nella memoria.