“Mostrare l'Iran per quello che è davvero,  mettendone in evidenza il fermento e l'energia. Questo era il mio obiettivo ”, esordisce Hossein Keshavarz, tracciando i contorni dell'ispirazione umanista, prima che politica, che contraddistingue la sua pellicola d'esordio.  “I film iraniani che vengono distribuiti all'estero sono sempre ambientati in zone rurali, ma è un dato statistico che i due terzi della popolazione vive in città in modo moderno ed agiato”, rimarca la produttrice e co-sceneggiatrice Maryam Azadi,  svelando la realtà, negata allo sguardo occidentale, che Dog Sweat porta a galla. “Abbiamo dovuto girare di nascosto,  senza permessi, senza visti di censura, senza un piano di lavorazione – spiega il regista – rubando, in fretta, attimi di vita reale”.  In un work in progress continuo che non permette incertezze. Questa scelta coraggiosa, comune a molti film “clandestini” iraniani, rappresenta una vera e propria dichiarazioni d'intenti,  ”una responsabilità tutta nostra che ci siamo voluti assumere,  per restituire un'immediatezza da cinema vérité, altrimenti impossibile”. 
Limitatamente al casting – e solo perché realizzato nel periodo antecedente le elezioni politiche del 2009 - c'è stata una certa libertà, seppur confinata entro certi limiti. “Abbiamo incontrato molti attori interessati a far parte del nostro progetto che si sono dimostrati estremamente disponibili, anche quando costretti ad interagire con i clienti di un centro commerciale, assolutamente ignari della macchina da presa nascosta.” ricorda Hossein, rendendo omaggio al duro lavoro del cast e della troupe. A tal proposito  - e con evidente rammarico - Mariam Kazadi aggiunge: “Spesso abbiamo dovuto eliminare sequenze molto buone, perché prive di alcune inquadrature di raccordo fondamentali”. Segno evidente delle enormi difficoltà incontrate e del pericolo corso.  
Interrogato sul futuro del film, in maniera un po' evasiva, Keshavarz dichiara di non sapere nulla di ciò che succederà: “So solo che molte pellicole clandestine, come la nostra, pur non essendo distribuite né in Iran né all'estero, riescono comunque a circolare anche oltre i circuiti dei festival”. E sulla condizione femminile,  tematica verso cui l'Occidente si dimostra sempre molto sensibile, si precisa: “Le ragazze iraniane iscritte all'Università sono molte di più dei ragazzi, così come le nostre parlamentari sono in sovrannumero rispetto a quelle americane”. Comunque, conclude Keshavarz: “Il mio non è un film politico, è un film comico, che gioca con i toni della commedia, per raccontare la speranza”.