Arrivano i fantasmi in chiusura di Berlinale. Con A Dragon Arrives! al regista  Mani Haghighi è riuscita una parabola fantastica e surreale sull’Iran. Un cimitero abbandonato nel deserto. Formazioni di pietra bizzarre e misteriose lo circondano. La quinta più bella vista in questo concorso. In mezzo una nave abbandonata.

In mezzo al deserto? Il detective Babak (Amir Jadidi che sembra Cary Grant) guida una Chevrolet arancione in direzione di questo luogo misterioso. Da risolvere c’è il caso di un prgioniero politico. Suicidio? Non ci crede nessuno. Chi sono allora gli assassini? E perché si verificano in questa piccola valle terremoti che non vengono registrati da nessuno? Un mistero geologico. E cosa sono i rumori misteriosi che compaiono a valle nella notte? Qual è il significato delle scritture sulle pareti della grotta dove è stato trovato il cadavere? È aramaico, la lingua di Gesù?  Babak assolda un geologo un po' folle e un ancor più folle ingegnere del suono.

Quello che segue è la versione nel deserto di Tre Uomini e un bebè, perché a un certo punto compare anche l’infante. Sono gli anni sessanta, gli anni dello Scià e dei suoi famigerati servizi segreti che hanno fatto sparire, torturare  e ucciso migliaia di cittadini. La censura era ovunque. E così feroce, che persino le opere di Shakespeare erano proibite, almeno quelle in cui c’era l’omicidio di un re. Cioè quasi tutte.

Haghighi distilla una miscela impura ma appassionante di Shahrazād, western, roadmovie, thriller, farsa e documentario. Mille e una storia messe insieme una dentro l’altra come una matrioska.

Haghighi, nato nel 1969,  ha studiato in Canada, è tornato dopo 17 anni in Iran, e ha cominciato a scrivere le sceneggiature del  regista premio Oscar Asghar Farhadi, prima di cominciare a girare le sue pellicole surreali e sarcastiche. Due volte è stato ospite a Berlino, con Men at Work (2006) e Modest Reception (2012) nella sezione Forum, parabole allegoriche del bigottismo della società iraniana tra dittatura e capitalismo.  I suo sono film ironici e arrabbiati. Questa volta apre il vaso di Pandora della fantascienza e spezza tutti i fili temporali della sceneggiatura. Che il filo del racconto si perda anche per lo spettatore più attento è la conseguenza di tanta rabbia.

Un finale di concorso di nuovo rivolto al passato. In una Berlinale 2016 in cui le domande su passato e identità dei cineasti sono state un filo conduttore. A proposito, ma dovè questo deserto meraviglioso? In Iran? Il regista lo svela in conferenza stampa: “E' il deserto di pietra dell’Isola Qeshm, nel Golfo Persico“.