Secondo il luogo comune degli ultimi tempi sui destini del cinema indipendente (e in particolare quello americano), il genere dovrebbe essere in crisi. Perché dopo vent'anni consacrati a storie realizzate con poco e raccontate con le voci e i volti che abitano le periferie d'america, reali o metaforiche, la stoffa sarebbe esaurita. Yelling to the Sky di Victoria Mahoney, in concorso al 61° Festival di Berlino, è la risposta più chiara che potesse arrivare sul tema. Il cinema indipendente americano è, e resta, tra gli strumenti più efficaci per misurare il polso dell'Occidente. Curioso che a una storia su criminalità, violenza e paura arrivi Victoria Mahoney, un'ex attrice con poche digressioni nel cinema più commerciale. La vita è decisamente amara per la diciassettenne Sweetness O'Hara, cresciuta nelle strade del Bronx. La famiglia è a pezzi, la ragazza conosce solo solitudine e violenza domestica. Fuori di casa, nel ghetto che a New York, per chi non lo sapesse, esiste ancora, ad aspettarla altro squallore e altra violenza. A dare del filo da torcere alla bravissima protagonista Zoë Kravitz rivediamo l'indimenticabile Gabourey Sidibe, quasi Premio Oscar nell'altro capolavoro sulla gioventù ai margini, Precious. Sidibe è Latonya, famigerata picchiatrice di quartiere. Quando il padre (bianco) ricomincia a essere violento la madre e la sorella abbandonano Sweetness. Sola, in balia delle gang e del padre, Sweetness si conquista la sua "street credibility" a suon di botte che impara a dare con l'aiuto delle nuove compagne Fatima und Jojo. "Sono nata e cresciuta a New York", dice Victoria Mahoney, "gli Stati Uniti sono cambiati molto negli ultimi vent'anni, ma nuove povertà e nuovi ghetti sono nati alla fine della strada. Molto spesso si è preferito chiudere gli occhi. Per questo ho fatto il mio film". La speranza di un nuovo inizio? Per il momento no. Quando madre e sorella tornano a casa, Sweetness si ritrova ad incarnare tutto quello che ha sempre temuto.