Il pretesto del viaggio. Fra i più spirituali che si possano immaginare. Quello alla Mecca, quello che ogni devoto all'Islam, almeno una volta nella vita, deve aver compiuto. Parte da qui Ismaël Ferroukhi, regista marocchino in Francia dall'età di tre anni, "per raccontare – e rendere universali – il conflitto generazionale e la possibilità di integrarsi in una società altra senza per questo rinunciare alle proprie origini". E' Viaggio alla Mecca (Le grand voyage), già presentato a Venezia nel 2004 e vincitore del Premio "Luigi De Laurentiis" come Miglior Opera Prima, in uscita il prossimo 5 maggio e distribuito dall'Istituto Luce.
Un anziano marocchino (Mohamed Maid) emigrato da tempo in Francia, forse prossimo alla morte, decide di portarsi in pellegrinaggio alla Mecca. L'unica persona a cui potrà chiedere di essere accompagnato è il figlio Réda (Nicolas Cazale) il quale, molto distante dalle tradizioni paterne e in rapporti non idilliaci con il genitore, non potrà esimersi dall'accontentarlo. In macchina, a stretto contatto l'uno con l'altro, avranno finalmente modo di "conoscersi" e superare le rispettive barriere. "Padre e figlio sono come due punti che alla fine si uniscono - spiega il regista, oggi a Roma per presentare la pellicola – e per questo è un viaggio iniziatico per entrambi. Ho voluto raccontare questa storia partendo da un ricordo personale, legato allo stesso viaggio che decise di compiere mio padre quando io avevo dieci-dodici anni. Ricordo che, pur rimanendo a casa, lo seguii idealmente aiutandomi con una cartina geografica. Notavo che sarebbe dovuto passare attraverso decine di paesi in cui c'erano conflitti e guerre ed immaginavo la possibilità che non sarebbe più riuscito a fare ritorno. Ad affascinarmi, dunque, è stato principalmente il tragitto, non solo lo scopo di quel viaggio". Percorso che, come detto, nel film accompagna la graduale evoluzione di un rapporto, dapprima contrassegnato da indifferenza e ostilità: "Esiste un fossato tra le generazioni, prosegue Ferroukhi, ma questo è un problema universale e non solamente riconducibile a contesti in cui il problema dell'integrazione è maggiormente sentito. Certamente, però, se le origini sono diverse da quelle del Paese che ti accoglie, il fossato sarà più profondo. L'unica soluzione possibile è data dalla riconciliazione, che deve passare attraverso un profondo riconoscimento: quando si è diversi l'uno dall'altro si è ricchi due volte". Realizzato in condizioni tutt'altro che agevoli, il film di Ferroukhi è il primo ad esser girato alla Mecca: "Non è stato affatto facile, racconta il regista. L'autorizzazione che ci aveva rilasciato l'Ambasciata dell'Arabia Saudita in quel luogo non aveva più valore e ci siamo trovati di fronte ad autorità locali abituate ai tempi delle troupe televisive, in grado di effettuare le riprese per poco tempo e senza la necessità di girare la stessa scena due o tre volte di seguito. Ma è stata un'esperienza indimenticabile, data dal fatto di essere lì proprio nel periodo del pellegrinaggio (quando qualcosa come 500.000 persone si ritrovano tutte assieme contemporaneamente in cammino, ndr) e dalla presa di coscienza che, una volta lì, tutte le differenziazioni sociali vengono meno. Il ricco e il povero si ritrovano per lo stesso motivo, senza distinguersi". Stesso pensiero che, in fin dei conti, è alla base dell'intero percorso interiore rappresentato da Viaggio alla Mecca e che, mai come in questo periodo storico, può estendersi in maniera universale: "Al giorno d'oggi, purtroppo, quando si parla di mondo musulmano si tende a far riferimento solo a quel 2-3 % di criminali che mette a repentaglio la vita stessa di una larghissima maggioranza, silenziosa e pacifica. I rapporti tra Oriente e Occidente si stanno degradando sempre di più e per riportare le cose nel giusto equilibrio ritengo sia indispensabile poter iniziare a lavorare insieme, per arricchirsi attraverso l'altro. Io, che appartengo contemporaneamente ad entrambe le culture, mi sento particolarmente fortunato".