Ne spegne una, ne riaccende un'altra. Accanto a lui, rannicchiata sul divano, immobile e al confronto minuscola, l'amata cagnetta Loki (morta qualche settimana fa, ndr), che ha fatto parlare di sé tanto quanto il Leone d'Oro vinto all'ultima Mostra di Venezia, non sembra infastidita dalle sigarette del suo padrone.
Mickey Rourke lo sa, la sua interpretazione in The Wrestler di Darren Aronofsky (nelle sale dal 6 marzo per Lucky Red) l'ha riportato in quel gotha da cui mancava da tempo. E quando gli chiediamo se il crepuscolare Randy "The Ram" Robinson sarebbe stato poi così diverso senza di lui (il ruolo era stato offerto a Nicolas Cage…), la risposta di Rourke non teme fraintendimenti: "Yes, Fuck Yes!".

A Venezia in molti hanno scritto che lei era "tornato". Precisamente da dove, visto che il cinema non l'ha mai abbandonato?
E' vero, ho continuato a fare film anche durante il periodo più buio della mia vita. Ma erano tutte produzioni di serie B: le major non mi assicuravano poiché continuavo a boxare e poi in quel momento preferivo combattere piuttosto che recitare. Era la mia attività preferita, e quasi mi vergogno di non essere arrivato in vetta, di averla abbandonata: mi mancavano tre incontri per il titolo, ma gli esami neurologici erano talmente negativi che il dottore mi ha detto non avrei avuto nemmeno la possibilità di contare i soldi, qualora li avessi vinti.

E' più bravo come boxeur o come attore?
Sono stato a buoni livelli in entrambe le cose, ma in momenti differenti. Nel pugilato avevo doti naturali, ma ero indisciplinato, non ascoltavo nessuno. Troppo tardi ho imparato che non si vince sul ring, ma durante gli allenamenti.

Perché The Wrestler è piaciuto così tanto alla Mostra del Cinema?
Ho capito sin dai primi giorni di lavoro con Aronofsky che sarebbe stato un gran film. E per quanto riguarda l'affetto con cui è stato accolto, credo molto dipenda dalla storia universale che racconta: il tramonto di un uomo, nella fattispecie di un atleta, che come tale non è pronto a lasciare. Ci sono persone, come il mio personaggio, che nella vita non sanno fare altro e non è un caso se sono sempre pochi quegli atleti che decidono di smettere: di solito sono gli altri a scegliere per loro.

In molti avevano scommesso che l'avrebbero premiata con l'Oscar.
A Hollywood è tutta una questione politica, è un business. Il nostro è un film indipendente, ma spero che alla fine sia apprezzato a prescindere dai premi.

Quanto c'è di suo nell'ultima, bellissima scena del film?
Ho scritto io quella scena, per questo credo sia così facile associarla direttamente alla mia parabola personale. Il protagonista sa che il tempo corre veloce e quindi ho pensato che se proprio "devo uscire di scena, fatemelo fare a modo mio". Sono felice di aver avuto questa seconda possibilità: mi vergogno di molti errori commessi in passato, ma oggi affronto la vita diversamente. Ancora non riesco a perdonare, ma ci sto provando. Non è facile, però: cambiare è stato molto doloroso, avevo paura di perdere molto come uomo.

Senza di lei sarebbe stato un film diverso?
(Finge di pensarci un momento). Yes, Fuck Yes!