Il verdetto è giusto. Se questo concorso romano - bistrattato persino dalla Detassis, che medita di eliminarlo alla prossima edizione - poteva ancora avere un senso, la scelta di assegnare il Marco Aurelio a Kill Me Please glielo restituisce tutto: perché è quel tipo di film che difficilmente otterrebbe visibilità al di fuori di un festival (speriamo non faccia la stessa fine di Playing the Victim, il russo che aveva vinto la prima edizione senza però trovare mai distribuzione in Italia), perché rivendica il primato della forma (quindi delle immagini) sul contenuto - su cui questa kermasse, ammettiamolo, ha eccessivamente puntato - e perché è semplicemente bellissimo. Non scriveremo che è il cinema che batte la realtà: depressione e suicidio (attorno a cui ruota il lavoro di Barco) rivendicano pari cittadinanza al reale di una denuncia politica, un fatto di cronaca, l'invettiva contro i dittatori di ieri e gli oppressori di oggi (apprezzabile comunque la Targa speciale del Presidente della Repubblica italiana al clandestino Dog Sweat di Hossein Keshavarz). Scriveremo invece che il cinema torna ad essere grande "Cinema": una virtuosa tessitura di significanti - le immagini - che nascondono il significato anziché rivelarlo. Enigma, mistero, sollecitudine. Domanda (al pubblico: di pensare) e offerta (sempre al pubblico: di emozioni, vissuti, esperienze) insieme.
Qualità di cui non difetta nemmeno il bel film della Bier, Haevnen - In a better world, che si becca il Gran Premio della Giuria. Qui il richiamo alla contemporaneità è più smaccato, l'adesione al reale trasparente, ma l'urgenza, la forza e l'autenticità con cui la regista danese riesce a toccare i nodi irrisolti dell'odierno Occidente (il confronto con l'altro, la logica della violenza, l'educazione delle nuove generazioni) avvincono e convincono. Patriottico ma condivisibile il riconoscimento a Toni Servillo come miglior attore (Una vita tranquilla di Claudio Cupellini), mentre lascia più perplessi il premio corale assegnato al cast femminile di Las buenas hierbas. Sarebbe bastato darlo alla giovanissima Nadia Khlifi - la piccola Maria di Nazareth nel film di Guido Chiesa, Io sono con te - per avere un premiato solo, probabilmente quello giusto.