Se lo scorso anno il Leone d'Oro a Lebanon era arrivato al culmine di un decennio cinematografico declinato al presente e implicato fortemente con le infezioni del reale - il terrorismo, il cortocircuito dei sistemi democratici, le tensioni internazionali, in breve la summa teorica del post 11-settembre - la vittoria di Somewhere sembra chiudere i conti con quella stagione senza però additare un nuovo corso. Ineccepibile come film del ripiegamento, discutebile Leone d'Oro.
La Coppola ha girato un buon film sulla crisi del soggetto, con un rigore visivo da scuola europea e più di un riferimento esplicito al vissuto personale. Una tappa coerente, forse risolutiva, nel percorso della figlia di Francis Ford. Un lavoro degno di un Concorso d'arte Cinematografica ma in definitiva troppo "normale" - un po' telefonato - per poter essere il migliore. L'amicizia personale tra la Coppola e il Presidente di Giuria può avere influito sul verdetto? Non al di là di una comprensibile empatia crediamo, e con un peso che ha contato forse meno della nazionalità del film: a Venezia abbiamo visto il trionfo di quattro americani nelle ultime sei edizioni. Qualcosa vorrà dire. Come se la Mostra in questi anni avesse scelto d'indossare una veste più internazionale e glamour, privilegiando un cinema abituato a dialogare col grande pubblico, un cinema a denominazione di origine controllata: Ang Lee, Aronofsky, Coppola.
Ma il dato più interessante che emerge dal film della Coppola - e in generale dal concorso - è il ritorno a un punto di vista centripeto, con la macchina da presa che fa dietrofront e, dal quadro politico-sociale, si accartoccia sui rovelli interiori di personaggi-limite: l'attore sfasciato di Somewhere, i pagliacci folli di De La Iglesia (Balada Triste de Trompeta), il matto Celestini (La Pecora nera) i superstisti di Silent Souls, la sociopatica Ariane Labed (Coppa Volpi) di Attenberg, il solito Vincent Gallo (Coppa Volpi anche lui) di Essential Killing, l'uomo senza qualità di Post Mortem. Il cinema di questi registi gira come le pagine di un manuale d'identità strappato. Anche quando la storia fa capolino - furbescamente nel caso di De La Iglesia, con grande intuizione nel film del bistrattato Larrain (Post Mortem era il vero film nuovo della Mostra, ma è andato a casa a mani vuote) - a imporsi è la meccanica fredda dell'autore, tornato, dopo il bagno di realismo degli ultimi anni, nell'alveo di una soggettività inquieta, debole e a tratti ombelicale. Ci siamo emozionati veramente con la Venus Noire di Kechiche e The Ditch di Wang Bing, ma questo non era il loro festival. Era il festival invece dello sguardo randagio, cinefilo, rarefatto o furioso, quasi sempre calcolatore. "Postmoderno", come ammette un incontenibile De la Iglesia. Per la gioia del Presidente di Giuria e di tutti i postmoderni: Tarantino. Noi invece che pensavamo già di aver sepolto il postmodernismo per sempre, ce ne andiamo da questa Mostra perplessi. Accompagnati dal rantolo di un cinema che si vuole morto e non si decide. Nè a spirare né a rinascere. In definitiva, non ancora Post mortem.