Matteo ha poco più di venti anni, divide un appartamento con alcuni amici e ogni giorno si reca al lavoro. Matteo è un ragazzo autistico: vivere da solo, lavorare, sono il frutto di piccole conquiste quotidiane. Matteo è figlio di Stefano Rulli, sceneggiatore e regista, e Clara Sereni, scrittrice. Rulli negli ultimi due anni si è dedicato alla realizzazione del documentario Un silenzio particolare, che uscirà nei cinema l'11 febbraio. Il film è il racconto in presa diretta di alcuni momenti della loro storia, poche giornate che sono lo specchio di una vita.

Quando ha incominciato a pensare alla realizzazione di Un silenzio particolare?
Già da un po' avevo l'ambizione di unire le due anime del documentario, quella che filma gli eventi così come sono e quella che invece prevede un'interazione con essi. Un silenzio particolare è un piccolo film che salda insieme queste due nature: io sono in campo come regista ma per destino sono anche il padre di Matteo. Volevo cercare una narrazione di tipo diverso, perché se anche sono dentro l'azione non sono in grado di controllarla. Certo, alcune occasioni sono costruite, ma non ricostruite, provocate, ma mai scritte. Tuttavia Matteo ci ha sempre spiazzati manifestando sentimenti diversi da quelli previsti. Non è un attore che metti lì ed esegue quello che gli si chiede, agisce liberamente seguendo l'istinto. Per questo credo che in qualche modo anche lui sia autore del film.

Come è stato possibile conciliare la presenza in scena con lo sguardo del regista, soprattutto considerando l'imprevedibilità di Matteo?
 
La troupe è formata da persone che Matteo conosce molto bene e chi stava dietro la macchina da presa sapeva benissimo di non doversi fermare nemmeno di fronte a situazioni più delicate o a momenti in cui veniva fuori il Matteo più duro, violento.  

Un silenzio particolare è il suo secondo documentario dopo Matti da slegare. Le due esperienze hanno elementi in comune?
La malattia mentale comporta dolore, rivoluzione del privato dei familiari, disagio, tutte cose di cui sarebbe stato impossibile chiedere a chi le viveva senza esercitare una forma di violenza. Certe cose potevo chiederle solo a me stesso. Potevo filmare mio figlio mentre si addormentava, ma non il figlio di un altro. Nel mio film, non a caso, non ci sono interventi diretti di amici o conoscenti con lo stesso problema. Non ho ritenuto giusto fare interviste o scandagliare la vita di altri. 

Non ha mai pensato di raccontare le stesse cose attraverso una sceneggiatura?  
Molte volte, ma non mi sembrava mai abbastanza. Non trovavo la chiave giusta, mi sembrava sempre tutto inadeguato. Poi con estrema naturalezza mi sono ritrovato di nuovo dietro la macchina da presa, convinto che dovevo essere io in prima persona a raccontare una storia che sulla carta non prendeva forma, ma che nella realtà era pronta per essere catturata.
L'intervista completa è sul numero di gennaio-febbraio della Rivista del Cinematografo