L'Aids esiste ancora, tutti lo sanno, ma in pochi lo vedono. Questo è il cuore del documentario Più o meno. Il sesso confuso. racconti di mondi nell'era Aids, che a sarà presentato il 26 febbraio al Festival Visioni Italiane, organizzato dalla Cineteca di Bologna, per poi cominciare il suo giro nelle sale italiane ad aprile grazie all'iniziativa Doc in Tour, un circuito alternativo per la distribuzione dei film di non-fiction sostenuto dalla Fice.
Non si tratta di semplice materiale informativo da distribuire nelle scuole, né di una specie di pubblicità progresso. “Pensavamo che fosse arrivato il tempo di rileggere tutti questi anni di epidemia affrontandola in maniera diretta e concreta, senza creare fantasmi e senza paure fittizie”, spiega a proposito Giulio Maria Corbelli, che ha firmato la regia del film insieme ad Andrea Adriatico per raccontare quei decenni, dai '70 al 2000, in cui Aids e HIV hanno rappresentato non solo un'emergenza sanitaria ma anche uno stravolgimento culturale, in netta controtendenza rispetto all'utopia rivoluzionaria della contestazione. "I giovani hanno bisogno di affrontare l'argomento con una consapevolezza diversa, ma non sono gli unici. La malattia ha avuto per due decenni un impatto stremante, per cui anche la nostra generazione, nata intorno al '66, è tentata di lasciarsi andare e ignorare il problema". Ecco così che nascono i fenomeni di cui si parla nel documentario, come la pratica del bareback, cioè del ritorno cosciente al sesso non protetto, ma non solo. "Il 40% dei pazienti scoprono di essere sieropositivi solo a uno stadio avanzato della malattia – ha precisato Adriana Ammassari, medico infettivologo dell'ospedale Spallanzani di Roma, uno dei tanti specialisti intervistati nel film – per questo stiamo cercando di coinvolgere anche i medici di base, che potrebbero spingere a fare il test intravedendo i sintomi precoci della malattia, che spesso però decorre per anni in modo del tutto asintomatico".
La sensibilizzazione riguardo al test rimane dunque un problema centrale, anche per quanto riguarda i giovani, perché, spiega sempre la dottoressa “stiamo cominciando a vedere sempre più ragazzi sotto i 20 che frequentano i nostri centri, ma trovano tante porte chiuse. Spesso il test non viene consentito ai minori, non si garantisce l'anonimato, le risposte non sono consegnate in busta chiusa e non si offre un counseling medico”. A maggior ragione i registi sperano che il loro documentario non entri solo nelle scuole ma abbia un impatto “pluri-generazionale”, spingendo a parlare finalmente della questione senza tabù. “Non abbiamo accettato nessuna testimonianza a volto coperto – precisa a proposito Adriatico – era una delle condizioni di fondo, dare visibilità alle persone sieropositive che nonostante siano malate hanno diritto alla loro dignità esistenziale”.