Michael Moore ormai fa tendenza e non è difficile capire perché. Un mondo spaccato in due, dominato dalle guerre, dalle violenze, dalle menzogne e dal declino dei valori, non poteva, ovviamente per la metà che prova malessere e si oppone allo status quo, non identificarsi nel ragazzone ciccione e irridente, con tanto di cappellino da baseball, che si mescola con i manifestanti di qualsiasi nazione, prende in giro i potenti e racconta senza veli, divertendo e provocando, la "verità".  Esce domani in 280 sale italiane Fahrenheit 9/11 il suo nuovo documentario trionfatore del festival di Cannes. Chi scrive è l'unico, tra i giornalisti di casa nostra (e per questo ringraziamo la distribuzione italiana del film) ad aver realizzato sulla Croisette un'intervista faccia a faccia con Michael Moore. In maglietta e pantaloncini corti per il gran caldo, il regista fatica a raggiungere la sala del fastoso Hotel Majestic. Incapace di evitare l'impatto con la gente che gli chiede un sorriso, un parere o un autografo. Incapace di non fermarsi a lungo, ripetutamente, a confabulare con l'inseparabile moglie: stesso sorriso, stessa aura, stessa stazza' Il suo film, Fahrenheit 9/11, è un esilarante e spietato attacco contro il Presidente George W. Bush, costruito come un teorema perfetto, con immagini alla portata di tutti, ma che nessuno ha pensato di usare, ma non in quel modo. Moore dipinge un ritratto risibile e preoccupante del dopo 11 settembre. L'amicizia e gli interessi congiunti di Bush con la famiglia Bin Laden; le sue resistenze sospette alle investigazioni sul terrorismo; la sua capacità di giocare con le paure americane per scatenare una guerra di interessi e di copertura; la disaffezione dei soldati al fronte iracheno, gli orrori della guerra visti dall'interno, l'inazione attonita al momento dell'attentato. Questo è uno dei momenti topici del documentario. Quando le Torri Gemelle vengono colpite, Bush si trova in una scuola della Florida, lo stato governato da suo fratello. Alla notizia il Presidente, che tiene in mano un libro di favole, non muove un sopracciglio. Resta lì, quasi inebetito. Trascorrono i minuti. Qualcuno gli sussurra che cade la seconda torre. Lui resta sempre lì, incapace di gesti, di azioni, di pensieri, lo sguardo vuoto. Mentre l'impietoso Moore sovrappone la didascalia dei minuti che passano all'imbarazzante silenzio del Presidente degli Stati Uniti d'America. Film che dalla prima parte documentaria, 45 minuti di materiale di repertorio sapientemente montato, dove il protagonista assoluto è Bush ("il miglior comico che potessi trovare", dice Moore) passa invece alla seconda parte recitata, dove il regista scende sotto l'occhio della cinepresa. Certo Fahrenheit 9/11 è anche un perfetto reportage (di parte), è un atto d'accusa politico. Mentre continuo a fargli domande (dove ha trovato quel materiale? Gli chiedo per esempio. E lui mi spiega che per avere il footage della scuola è bastata una telefonata. Qualcuno aveva ripreso il Presidente mentre era lì, l'undici settembre, e nessuno aveva avuto l'idea di chiedere il nastro') mi accorgo che mi guarda sorridendo. Ho io una domanda per lei, mi dice: "Noi americani siamo una nazione ignorante, si sa, e questo spiega perché siamo caduti nella trappola che ci è stata tesa. Non leggiamo, non ci informiamo, non sappiamo mettere in relazione le informazioni tra loro. Ma voi italiani siete un popolo informato, cosciente. Come avete potuto cadere in trappola? Non è ancora più imbarazzante per voi?". "Mr Moore - gli rispondo - ma perché non viene a fare un film-documentario nel nostro paese?". "Eh no, troppo facile!", conclude ammiccando il regista più scomodo d'America. "Dovete farlo voi. Io poi vengo a vederlo'".