“Il cartone che serve per ripararsi dal freddo ha un'anima, come i sassi e il legno, secondo i concetti avanzatissimi dei fenici del 700 A.C.: l'idea di un Dio sciolto nell'universo, fino al più piccolo granello di sabbia. Viceversa, c'è un altro cartone, quello della realtà virtuale, del villaggio globale”. Così il maestro Ermanno Olmi, fresco 80enne, presenta Il villaggio di cartone, fuori concorso alla Mostra di Venezia con Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber, Massimo De Francovich e tanti migranti.

Olmi, che cos'è per lei la finzione?
Un artificio, ma se evoca una materialità che porta dentro di sé delle tracce del trascendente o delle sofferenze umane allora giustifica il fine.

Eppure, aspettavamo un documentario.
Non ho mantenuto fede alla parola data: dovevo fare un doc lungo le coste del Mediterraneo per vedere che cosa è rimasto delle grandi civiltà. In evidenza, il cristianesimo: non tanto come religione di appartenenza, ma come modello, filosofia di vita. Per me come per Montanelli, è la più grande rivoluzione della storia dell'umanità, diabasis, la parola che si fa atto, testimonianza. Mi porto sempre dietro il Camus di “un pensiero può cambiare il mondo, ma prima devi cambiare te stesso”: il cristianesimo ha questo impegno, non atti di religiosità in senso liturgico e rituale, ma vita come fatto d'amore. Digressione a parte, sono caduto e rimasto immobilizzato per 70 giorni: che facevo, mi abbandonavo alla malinconia, alla disperazione? Mi sono fatto passare il pc da mia moglie, e nella mia camera da letto ho fatto incontrare le varie culture mediterranee.

E?
Ci tenevo a mostrare come gli uomini quando si dimenticano di appartenere a un'ideologia - non ho detto fede - si ritrovano a intendersi come tali, non quali addetti a questa o quella religione. Ho sentito il bisogno di togliere di mezzo tutti i simboli, le idolatrie: il film inizia con una chiesa che viene dismessa perché non ha più fedeli e svuotata di tutti gli orpelli. Vuota, torna a essere la chiesa dell'incontro.

Come hanno collaborato Claudio Magris e Gianfranco Ravasi?
Uno scambio di considerazioni, un aiuto a mantenere la via maestra: sono due uomini preziosi.
Che film è?
Non realistico, un apologo, in cui ho giocato con gli attori, come Rutger Hauer: il mitico replicante di Blade Runner è diventato prima l'ubriacone della Leggenda e ora un sacrestano. Uno scherzo gioioso.

E poi ci sono i migranti.
Dagli umili si ricevono insegnamenti straordinari: gli africani hanno conservato i dati delle origini dell'umanità che noi abbiamo perduto. Non saremo noi a salvare l'Africa, ma loro a salvare noi, scoloriti di pelle e anche di anima.