“La verità è un viaggio scomodo”. Lo afferma durante la conferenza stampa al Torino Film Festival Elisabetta Sgarbi parlando del suo ultimo film I nomi del signor Sulcic. Ed è una frase perfetta come sottotitolo per il film che racconta l’indagine di alcuni personaggi sulle identità e quindi sui nomi di un uomo, variamente legato a questi personaggi, la cui identità sembra sempre sfuggente e liquida, come sfuggenti sono i confini del racconto, i limiti tra realtà, finzione e rielaborazione, come lo sono i margini tra l’Italia e la Slovenia, Trieste e Lubiana, il passato e il presente.

“Ho scritto il film – dice Sgarbi – assieme a Eugenio Lio e ci ho messo dentro molti elementi autobiografici anche se non racconto nulla che mi riguardi personalmente. Soprattutto ci tenevo a inserire una citazione a un poeta dialettale ferrarese che mio padre ripeteva spesso: ‘Portami via la memoria e non sarò mai vecchio’. È la frase che chiude il film e mi sembrava fosse anche il senso del film”. Un senso che naviga tra documenti e ricordi, che cerca i personaggi e le persone reali e li trasfigura attraverso elementi quasi onirici, in cui il legame tra la verità di ognuno di noi e la storia è fortissimo e familiare.

Ma oltre ai dati biografici che Sgarbi ha disseminato anche nel rapporto degli attori con i loro personaggi (“Credo nel lavoro collettivo, nel contributo personale che ognuno di coloro che lavorano con me può dare al film”), c’è una parte di testimonianza che si riallaccia al lavoro dell’autrice nel documentario: “È un film molto scritto, pieno di testi orali e letterali, come per esempio i vangeli gnostici che sono molto presenti, in cui il lavoro sulla memoria è soprattutto un lavoro spirituale, che si fonda in una città come Trieste che amo molto, in cui ho già ambientato altri miei lavori”. Non a caso, si apre con una ricerca in una sinagoga, con Roberto Herlitzka custode della memoria di un popolo.

I nomi del signor Sulcic cerca così una dimensione tra concretezza e astrazione, giocando con i possibili statuti dell’immagine e della rappresentazione cinematografica, come un film del mistero (in ogni senso: religioso, storico, umano) in cui però le velleità della forma denunciano una certa mancanza di mistero e una presenza di confusione stilistica che limitano le possibilità del film, non certo le sue ambizioni.