Dopo l'Oscar e il Golden Globe ottenuti nel 2011 con In un mondo migliore e la parentesi tutta divi di Love is All You Need e Una folle passione, Susanne Bier torna a confrontarsi con le atmosfere cupe della sua terra di origine, la Danimarca.
Protagonisti di A Second Chance, in Italia l'anno prossimo distribuito da Teodora, due coppie che hanno da poco avuto un figlio: la prima – Andreas ed Anne (Nikolaj Coster-Waldau e Maria Bonnevie) – è sintesi perfetta del concetto di alta borghesia mentre la seconda – Simon e Tristan (Ulrich Thomsen e Nikolaj Lie Kaas) – incarna la marginalità dovuta alla droga e alla violenza.
Le domande che la regista si pone e al contempo pone allo spettatore sono profondamente esistenziali, a partire dalla natura innata o meno dell'istinto materno alla capacità di accudire i propri figli in relazione alla classe sociale. Perché di maternità e paternità si tratta nel film, una sorta di thriller mentale in cui le donne sono l'anello debole. Soprattutto quella che parrebbe più attrezzata, cioè la borghese. E invece: “Anne è una persona infelice, incapace di governare la propria esistenza. Le ragioni del suo allontanamento dal comportamento abituale di una madre sono molteplici, ma al fondo c'è che nessuno ha mai capito quanto fosse a disagio persino con se stessa. Ma il mio è anche un film sull'essere genitori in generale e sulla difficoltà di essere all'altezza del compito.”
E anche sui limiti di cosa si può fare per amore.
Andreas, che vive senza problemi economici grazie a un ricchezza familiare oltre a fare il poliziotto, è il personaggio su cui pesa la domanda: per amore si possono infrangere le regole? Ognuno risponde a modo suo. Ho riscontrato durante le proiezioni come alcuni spettatori fossero dalla sua parte mentre altri volevano quasi gridare: non lo fare! Il suo è il personaggio più complesso perché nel pensiero comune è la madre ad essere una figura iconica mentre qui è un padre a possedere molte delle qualità comunemente considerate materne.
Si può definire A Second Chance un thriller?
So che in molti sono portati a leggerlo in questo modo, credo però che sia essenzialmente un dramma al cui interno ci sono alcuni elementi del genere. Ma non vorrei si pensasse che sono contro il thriller. Amo sperimentare, nel mio percorso mi sono provata con generi diversi e penso sia fondamentale percorrere strade nuove per crescere.
Chi nel film ha una seconda possibilità?
Tutti i personaggi. Andreas che dopo aver tanto sbagliato alla fine fa la scelta giusta; la madre vittima della droga che trova nell'amore per il figlio una via di salvezza; il collega del poliziotto Simon che dopo mesi di abuso di alcol prova a scrollarsi di dosso il dolore che l'opprime. In questo senso il film parla di tutti noi, perché una seconda chance ci viene sempre data nel corso della vita. Il problema è capire quando accade ed essere pronti ad accettare di cambiare.
In Danimarca il pubblico continua ad affollare le sale, qual è il segreto?
Il rapporto perfetto tra sceneggiatori e registi. È dalla buona scrittura che nascono le storie in grado di attirare spettatori. Ultimamente ho avuto la possibilità di vedere parecchie pellicole europee e tra queste molte opere prime, devo purtroppo confessare come il concetto di cinema d'autore con i quali siamo cresciuti abbia finito con il penalizzare la forza delle sceneggiature. Ci vorrebbe molta più collaborazione per non tradire il cinema d'autore e al contempo scrivere storie per il maggior numero possibile di spettatori. Gli Studios lo hanno capito benissimo, il connubio tra registi e sceneggiatori in America è perfetto. Altrimenti si corre il rischio di lasciare alla sola televisione il compito di andare incontro ai gusti del pubblico, con la conseguenza di allontanarlo sempre più dalle sale.